giovedì 3 gennaio 2013

Il Telegrafo del 5 marzo 1936
Italiani, abissini...ed europei


Amba Aradam, febbraio


Da oltre ventiquattro ore il tricolore della Patria sventola vittorioso sulla cima dell'Amba Aradam, conquistata alla Patria dalle Camicie Nere della "23 Marzo". E per un giorno, dopo la vittoria, i bravi militi, incuranti della fatica e dei pericoli, hanno continuato la lotta, "addentato" il nemico e seguite incalzandole e battendole le schiere di Ras Mulughieta', in fuga disperata per l'altopiano di Scetirot.
Vinte le ultime resistenze, stanati dalle grotte e dalle trincee i resti dell'armata avversaria, liquidata definitivamente la partita in sospeso con Ras Mulughieta', fatto un abbondante bottino di armi, munizioni, viveri e materiali di ogni sorta, i legionari della Divisione "Implacabile" sono tornati sull'amba e, senza concedersi un sol giorno di riposo, si preparano ora ad accingersi ad una nuova impresa: raggiungere al piu' presto il Tembien, compiendo una vasta azione di rastrellamento e conquista nella regione bagnata dalle acque del Gheva' e non ancora occupata dalle nostre truppe. Impresa difficile, gloriosa, forse pericolosa e faticosa senz'altro.
Ma la camicie nere non guardano a difficolta', non si curano dei pericoli, non temono la fatica. E' necessario partire? Si parte, Occorre chiedere ai corpi, gia' affaticati quanto posso esserlo corpi umani provati da tanti e tanti giorni di sforzi e privazioni, un nuovo grande sforzo? Ci sforzeremo. Lo spirito e l'entusiasmo non fanno difetto e la volonta' e' tanta, da supplire, se fosse necessario, alle stesse energie fisiche.
Tra pochi minuti partiamo. Alcuni reparti sfilano gia' verso nord-ovest in direzione del Massiccio del Ras Dascian, il piu' alto monte dell'Afriza, che con i sui quasi 5000 metri di altitudine si alza maestoso e imponente oltre il tacazze' e si mostra ai nostri occhi ammirati tutto confuso con la foschia tinta di roseo dalle prime luci dell'alba.
Scrivo in fretta queste poche righe perche' voglio dare alla carta le mie impressioni della giornata di ieri. Impressioni che hanno oggi il pregio della freschezza e che forse si potrebbero confondere con quelle di domani e dei giorni che seguiranno, se attendessi un momento piu' propizio per scrivere.

La tana del Ras
All'alba del giorno successivo della conquista dell'Amba, i battaglioni delle "23 Maro" non impegnati in lavori stradali (perche', subito dopo la vittoria, una buona parte delle camicie nere ha deposto il moschetto, impugnati picconi e badile ed attaccato le pareti rocciose del picco, per aprire la strada agli automezzi - noi passiamo sempre ove non sono strade, ma immancabilmente lasciamo la strada dietro di noi) si sono slanciati all'inseguimento del nemico ed hanno sgmoniati gli ultimi centri di resistenza.
Tutte le grotte, naturali o artificiali, scavate dal tempo, dalle acque o dagli uomini, qua e la' nella roccia, tutte le trincee, tutti i fortini e tutti i boschetti di euforbie e sicomori sono stati frugati e rastrellati con cura paziente e scrupolosa.
Di tanto in tanto qualche colpo di moschetto, il crepitare della mitraglia e lo scoppio dei petardi, segnalavano scaramuccie o attacchi isolati alle nostre avanguardie. Scaramuccie risolte sempre in nostro favore e attacchi volta volta respinti, con perdite gravi da parte del nemico e insignificanti da parte nostra.
In una grotta, piu' ampia e piu' nascosta delle altre, il rifugio del ras, la tana del terribile Mulughieta', il covo della bestia nera, che con il suo solo ruggito si era ripromesso di ricacciare al mare gli italiani.
Stanato dalle artiglierie, travolto dalla fuga dei suoi guerrieri, in rotta sotto l'incalzare delle Camicie Nere, il "piccolo leone di Giuda" se l'era data a gambe precipitosamente, piantando in asso amici e nemici e lasciando nella tana principesca tutto un arsenale di armi e materiali.
Cosi' i militi, che per primi entrarono nel covo del capo, ebbero la gradita sorpresa di trovare, ammucchiate assieme ai fasci di moschetti, cassette di munizioni, sacchi di farina e colli di materiale sanitario, una gran quantita' di bottiglie di spumanti francesi, di liquori inglesi e un intero magazzino di casse e scatole di biscotti, frutta candita e sciroppata, marmellata, burro, formaggio e - elegantone di un Ras! - ciprie e profumi delle migliori marche parigine.
Tutte cose che stavano li' a dimostrare come il Ras se la spassasse beatamente con le sue favorite, mentre la massa ignorante dei suoi sottoposti, se non addirittura schiavi, morivano di fame nel tentativo di arrestare la marcia alle legioni della Nuova Italia, alle legioni del bene, della liberta', della civilta' e del progresso.
Ma nella fuga precipitosa, il terribile Mulughieta' non aveva lasciato soltanto armi, cibarie e profumi. Anche tutte le sue numerose decorazioni: lo spadone del comando, gli abiti da cerimonia ed alcune casse di sonanti talleri, facevano bella mostra d'oro nella tana del leone, per dire quanta "fifa", gli "ascari di Mussolini" avevano suscitato nell'animo...e nelle gambe del dgno ministro del Negus.
Fuggito il Ras, decimati e messi in fuga i trentamila e piu' guerrieri, i legionari della "23 Marzo" hanno raccolto i pochi feriti abissini, rintanati nelle grotte. Tra i feriti una donna, una bella scioana, compagna di Ras Mulughieta', abbandonata dall'amante, dopoche' una scheggia di granata le aveva spezzato un ginocchio. Con la donna una bambina di due anni: un gingillino color cioccolata, una bambolina graziosa e sorridente, con due occhioni grandi grandi, vispi e per nulla timorosi. Raccolte e assistite dalla pieta' delle camicie nere - che e' grande quanto il loro coraggio - le due creature sono state curate amorevolmente: la mamma dai medici, la figlia da un bel tipo sense di Siena, che improvvisatosi bambinaia, ha fatto sua la bamboletta e se la porta dietro, suscitando la curiosita' dei camerati e facendo scattare migliaia di obbiettivi fotografici al suo solo passaggio.
E' significativo, e' bello il fatto di questo rude soldato, di quest'uomo giovane di anni e di spirito, di questa camicia nera che ha conosciuti i pericoli e le ebbrezze della Rivoluzione e della riconquista della Libia e che conosce oggi la bellezza e la durezza della vita del Legionario d'Africa, che dopo la battaglia raccoglie la bambina del nemico e si dedica alla piccola abbandonata, con tanta fede e tanto amore come certamente non si dedico' un giorno ai libri del Liceo ed ai testi di chimica e farmacia, da lui studiati prima di ofrire alla Patria - durante la Rivoluzione, in Libia ed oggi in A.O. - la sua giovinezza e la sua intelligenza.
E bello, e significativo e' il vedere con quanta cura vengano curati i nemici - quei nemici che uccidono le camicie nere prigioniere - e quanta riconoscenza i feriti dimostrano agli italiani, tanto dissimili, tanto piu' buoni, piu' umani e piu' giusti di cuore di come li avevano dipinti i capi dei guerrieri.
Italiani e abissini. Due razze diverse, tanto diverse! Due popoli dissimili e tanto lontani tra loro per intelligenza, civilta' e costumi. Ma uomini tutti destinati prima o poi ad intendersi, a conoscersi, a stimarsi, forse ad amarsi.
Italiani ed abissini. Non Europei e Africani. Gli italiani si vantano di essere i figli di Roma e sono e vogliono essere solo italiani, come gli abissini che si ritengono una razza superiore a tutte le innumerevoli razze africane, sono e vogliono essere solo abissini.
Europei...gente civile, gente che conosce il progresso, gente che deve a Roma, all'Italia la luce che illumina il continente. europei...Uomini bianchi, gente di razza quasi (dico quasi) simile alla nostra, uomini che furono o si dissero nostri amici. Europei...uomini che il combattente, frugando la tana del nemico, si trova improvvisamente davanti, a mani alzate e imploranti umilmente pieta' con il classico ritornello di tutte le guerre: Bono taliano, bono taliano...
Due di questi rinnegat della razza bianca, due ufficiali di una Nazione civile e un giorno a noi sorella in armi, due europei al servizio del Negus sono stati scovati dalla caverna, ove li aveva cacciati la loro vigliaccheria, e tratti fuori, prigioneri di guerra, di quella guerra che uomini bianchi combattono contro l'impero dei neri e contro l'imperialismo egoista di tanti bianchi, in volto, ma neri nelle coscienze.

Bono taliano...
- Bono taliano, bono taliano...
E l'italiano, come sempre, e' stato buono, e' stato nobile. Non linciaggio, non percosse, non strazi a chi avrebbe tutto meritato, ma solo disprezzo.
Il disprezzo dei fanti ha bollato come marchio di infamia questi esseri senza patria e senza razza, che per cinquemila lire al mese si posero al servizio della barbarie e dello schiavismo, contro i loro fratelli di un giorno.
Condotti alla presenza di S.A.R. il Duca di Pistoia - il valoroso nostro comandante - i due ufficiali europei dell'esercito abissino, non hanno avuto un gesto, ne' una parola da uomini, da soldati.
Come stracci, si sono abbattuti al suolo tentando di baciare i piedi dell'Augusto Principe. Mai spettacolo e' apparso tanto ripugnante come questo offerto da due europei, che in terra d'Africa, imploravano pieta' dall'uomo bianco, che essi avevano tradito prima di combatterlo.
il Principe - l'italiano - non ha rivolto un solo sguardo ai due esseri che strisciavano nel terreno come rettili immondi. Soltanto una parola e' uscita dalle sue labbra: Vigliacchi!
Parola che e' stata peggiore d'una scudisciata: Vigliacchi! Voi che in armi servite una causa non giusta e non vostra. Vigliacchi! Voi che degni rappresentanti dei mercanti di cannoni e degli affaristi di Ginevra, tradite, in una l'Italia, la razza bianca e la civilta'.
Li abbiamo veduti incamminarsi per la mulattiera al fianco dei neri, loro compagni di prigionia. E mentre gli abissini procedevano a testa alta, fieri della fierezza di chi ha combattuto da uomo e da soldato, i bianchi andavano avanti barcollando, a capo chino ripetendo la frase della vergogna e della umiliazione: Bono taliano...
Per una volta ancora, per una volta di piu', ci siamo sentiti italiani ed abbiamo compreso che Italia ed Europa sono due cose nettamente distinte. Il mare nostro e i ghiacci delle Alpi ci dividono dal continente non solo geograficamente, ma anche moralmente. Ed impediscono le nostre azzurre acque e le nostre candide nevi eterne che il marciume dell'Europa giunga fino a noi.
Di fronte allo spettacolo misero offertoci dai rinnegati in divisa etiopica, ci siamo sentiti orgogliosi del nostro isolamento e fieri di quel disprezzo che possiamo dimostrare apertamente a chi ci odia e inutilmente tenta con ogni sforzo di attraversarci la strada.
E questo disprezzo, noi soldati, lo sintetizziamo in una sola parola. In quella parola detta dal Principe Reale, dal comandante la "23 Marzo": Vigliacchi!

Dino Corsi


http://www.97legione.siena.it/

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