domenica 13 gennaio 2013

Il Telegrafo del 5 dicembre 1936
Un posto vuoto in tenda

Si chiamava Massimo. Massimo Giuseppe. Era con noi da alcuni mesi; mai però, lo avevo avvicinato, gli avevo parlato. La notte del 3 ottobre '35 avevamo varcato il confine da appena ventiquattr'ore, accampiamo sulle pendici sud della collina di Zennai. Accampiamo, dopo aver predisposte le opere di difesa: quattro muriccioli con feritoie e reconto del campo.
La luna ci illumina mentre affaccendati con teli e paletti, ci costruiamo la casetta di tela. In un batter d'occhio la tenda è fatta. La "tenda Rino Daus" fa bella mostra di sè al centro del campo trincerato; e sul più alto paletto sventola la fiamma di combattimento dai colori della "Balzana". Ci accingiamo al riposo. Siamo sette senesi. La tenda è a sei veli, quindi - necessità di guerra - atta ad ospitare otto persone. Quindi, logica di guerra, un posto è vuoto, è libero.
Non ho chiuso gli occhi, che la voce del Comandante il plotone mi fa sussultare: "Corsi!"
- Comandi Signor Tenente!
- Quanti siete in tenda?
- Sette.
- Allora hai un posto vuoto?
- Signorsì.
- Prendi questo. E' Massimo: non ha dove dormire. Il tenente si allontana e l'ometto - proprio un ometto, anzi un "omino" come si dice noi a Siena - entra in tenda e ci saluta con un cordiale: "Felice sera guagliò!". Ed aggiunge: "Dove mi assetto?". A malincuore, lo confesso, mi stringo appresso ai miei due camerati, che con me dormono alla destra del paletto di centro, e rispondo. "Vieni qui, tra me e il paletto".
L' "omino" si "assetta". Accomoda alla meglio le sue cose nei 45 centimetri di spazio a lui riservato; toglie dallo zaino il maglione, chè la notte è fresca, lo indossa e si dispone a riposare. Io lo guardo. E vedo ciò che mai avevo osservato. Sul petto di Massimo Giuseppe, volontario di S. Maria Capua a Vetere, sono due file di nastrini: le decorazioni della Grande Guerra. e sul braccio destro l' "omino" porta i segni di due ferite. Sento che qualcosa di nuovo e di grande è entrato nella nostra tenda. Ogni preconcetto verso quello che fino allora avevo considerato un intruso, svanisce. Comprendo che, se anche non senese, il combattente di Vittorio veneto può essere ospitato nella tenda che s'intitola al Nome Sacro del Nostro Martire, non solo: ma che la presenza fra noi, giovani entusiasti quanto si vuole, ma sempre "cappelle" di fronte a chi ha realmente combattuto, ad un glorioso ferito della Grande Guerra, torna a tutto nostro onore. E, con fare rispettoso, mi rivolgo nuovamente all' "omino":
- Ditemi Massimo, dove siete stato ferito?
- Alla bocca - e mostra una cicatrice che gli deforma il labbro inferiore - ed alla spalla; fu sul Piave, nel '18...
- Raccontatemi, Massimo.
- Volentieri. E l'ometto, con il suo accento meridionale, colorito e pittoresco, mi narra storie di guerra, in questa prima notte della nostra guerra. Io ascolto e rivivo con lui le giornate della Grande Epopea; mi entusiasmo dei suoi entusiasmi e soffro al racconto delle sue sofferenze. Massimo si tace, la narrazione è finita. Mi chiede un sorso d'acqua. Non l'ho, nessuno ha acqua nel campo (il cuore mi stringe nel forzato rifiuto); una sigaretta: neppure. Qualcosa da mangiare. Questo si, lo posso. In fretta e furia tolgo dal tascapane alcune pannocchie di granturco. Le ho raccolte stamane appena varcato il confine e sono state il mio vitto di oggi, come lo saranno di domani. "Tenete, prendete Massimo, dico, non ho niente di meglio da offrirvi". E Massimo afferra la pannocchia dai grani d'oro, la spillucca ed inghiotte i chicchi così come sono. La fame è fame, ma io mi sento in dovere di avvertirlo: Fate piano Massimo, son indigesti...
L' "omino" mi guarda con i suoi occhioni neri spalancati e scrolla la testa come per dire: Digerisco tutto io, digerisco! Ho digerito pure le pallottole dei "cecchini"...
Ci addormentiamo: passano le ore. E d'un tratto mi sento scuotere. Il mio primo impulso è quello di prendere un'arma. Frugo fra gli zaini e domando con voce certo non troppo calma: "Che c'è? Siamo attaccati?". Ma Massimo mi tranquillizza: "Calma guagliò, calma. Sono io: me dole 'a panza..."
- Cosa?
- Mi duole la pancia.
- Lo sapevo! Ve l'avevo detto di masticarlo il granturco!
- Santo Iddio! Cosa volete che vi faccia?...Provate a mettervi supino..e buonanotte! - Mi rigiro e procuro di riprendere sonno. Ma di tanto in tanto i lamenti dell' "omino" mi fanno sussultare. Ed il ritornello continua quasi fino all'alba: "Me dole 'a panza"...

.......


Adunata al rancio! Via di corsa verso le cucine. Risuona l'allegro sbattere dei cucchiai contro le gavette, si scoprono le marmitte da campo e si inizia le distribuzione: Pastasciutta!
Massimo, lavorando a quattro palmenti, divora la sua razione di pasta al sugo. Poi, il solito, fa il giro del campo domandando a destra e a sinistra: "Chi tiene pasta a soperchio?". Riempe la gavetta e continua a divorare. Ed io a ripetergli: "Massimo, non mangiate tanto, vi farà male". Invano. COme parlare alle stelle. E poco dopo eccolo uscir fuori con l'ormai consueto ritornello: "Me dole 'a panza"

.......


Massimo è partito. Trasferito al "186.o" Battaglione, ha lasciato la tenda. Ci siamo salutati come vecchi camerati, come padre e figlio ed un cordiale abbraccio ha suggellato il nostro distacco. In tenda un posto è rimasto vuoto. Ma nessuno se ne accorge. Sono cominciate le battaglie e tempo di piantare la tenda non c'è. I teli rimangono ripiegati e l'assenza di Massimo è poco o niente notata.
.......


28 febbraio. Siamo sotto l'amba Tzellerè. Marciamo già da dieci ore e solo da pochi minuti ci siamo aperta la via tra le gole del Tembien, sbaragliando l'avanguardia dell'armata avversaria comandata da Uola cassa, quando un ordine giunge in compagnia. Il "188.o", impegnato sulla nostra destra, ha lasciato morti e feriti sul terreno.Il battaglione prosegue l'avanzata ed è necessario correre in soccorso dei compagni feriti. Corriamo. Le prime ombre della sera già scendono, quando giungiamo al torrente in secca, sul letto del quale sono adagiati morti e feriti.
Occorre far presto: gli abissini ci sono vicini. A duecento metri la R. Guardia di Finanza combatte da ore; sulla destra e sulla sinistra il nemico, fugato dalle colonne della "23 Marzo", si è spanto tra i boschi e prepara l'insidia. Un attimo di esitazione vuol significare la morte di cento o più uomini.
In fretta raccogliamo i feriti. Mi sento chiamare da una voce amica. E vedo un senese, un amico carissimo, che mi tende le braccia. Abbraccio il carissimo amico e mi consolo quando posso costatare che Liberato - questo è il suo nome - pur essendo ferito abbastanza gravemente, non corre serio pericolo. Ma, subito, dalla sua bocca, apprendo la triste notizia: "Là, sotto quel baobab, c'è Massimo. Sta male, tanto male..."
Corro verso la gigantesca pianta tropicale e lo scorgo, il mio "omino", steso a terra, in un lago di sangue.
- Massimo! Massimo!
- Tu Corsi?
- Si, io...Ma, ditemi, Massimo, dove siete ferito, cosa avete?
Mi guarda con i suoi occhioni neri più che mai spalancati e, in una smorfia di dolore, mormora. "Me dole 'a panza".
Comprendo: è ferito all'addome. E pochi istanti sono bastati a farmi comprendere che la ferita è mortale. Infatti, poco dopo, il povero Massimo spira e raggiunge in Cielo i suoi camerati del Grappa, del Piave, dell'Isonzo, e quelli pià giovani di Val Gabat e dell'Amba Aradam.

.......


Abbiamo rifatto la tenda; un posto è rimasto vuoto. Il suo.
Talvolta la notte, mi sveglio di soprassalto e tendo gli orecchi. Vorrei, ma non lo posso più, udire ancora risuonare a me vicina la voce dell'oscuro Eroe. Vorrei sentirmi ripetere, tra il sonno, dopo uno scossone che mi avesse bruscamente destato: Corsi, me dole 'a panza...

(dal mio diario di guerra)
Dino Corsi

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