Il Telegrafo del 12 aprile 1936
Resurrezione di un'anima"
Samre', Pasqua dell'A. XVIIl Tembien: una regione unica al mondo, per i suoi paesaggi ora incantevoli, ora terribilmente paurosi e selvaggi. Valli verdeggianti bagnate dalle fresche acque sorgive, eden terrestri ricchi della piu' folta e rigogliosa vegetazione tropicale; festa grandiosa di verde e di frescura, euforbie fiorite, bananeti fiorenti, distese di colture dattifere e boschetti di cedri, limoni e aranci. verde su tutti i toni e su tutte le sfumature. Una fantasia meravigliosa di colori, di luci e di uccelletti variopinti, che di pianta in pianta, e di ramo in ramo, cantano la gioiosa canzone dell'eterna primavera.
Alte nelle valli, fatte di dirupi scoscesi e rocciosi impraticabili, le ambe. Le caratteristiche e tipiche ambe africane. Montagne di pietra durissima, ammassi di impervia roccia, regno quasi inviolabile delle aquile e dei falchi.
Precipizi che strapiombano a valle, gole oscure e paurose, sentieri troncati dalle acque, grotte e caverne antidiluviane.
In basso il paradiso; in lto l'inferno. Un inferno che gli uomini hanno violato e domato. Un inferno naturale, che per un mese fu inferno di guerra.
Annidati nelle caverne, arrampicati sulle guglie di pietra, appostati sull'alto dei ciglioni e sempre favoriti dalla conformazione del terreno, i guerrieri delle armate di Ras Cassa e di Ras Sejum si erano infiltrati nel Tembien ed avevano atteso l'urto delle legioni.
Giunsero i legionari della Nuova Italia, vennero tra monti e valli i soldati del Duce e vincero gli ostacoli del terreno e la tracotanza dell'avversario.
Fanti, Camicie nere ed ascari travolsero le resistenze nemiche, decimarono le armate etiopiche, fugarono i resti di queste e, bagnando la roccia con il sangue degli eroi caduti, redessero la Regione ed issarono nei villaggi e nelle piu' alte cime del Tembien il Tricolore d'Italia, i vessilli della Romanita', le insegne della civilta', del progresso e del diritto.
La pace e la tranquillita' tornarono a regnare sovrane a valle e a monte. Sotto la protezione della potenza di Roma Imperiale, le genti di queste Regioni d'Africa intrapresero la nuova vita di bene e di tranquillita', le piante rifiorirono e gli uccelletti multicolori cantarono la nuova canzone della Primavera della giovinezza eterna.
Nei pressi di un valico lontano, che domina la carovaniera Abbi Addi - Amba Tzellere', sorge un fortino. Uno dei tanti fortini costruiti in pochi giorni dalle camicie nere rimaste a presidiare la regione.
Una bassa costruzione a forma cilindrica. Muri di pietra a secco, costituenti un triceramento rotto qua e la' da feritoie e finestrelle di osservazione. Dalle feritoie, come un poderoso cerchio di ferro, le mitraglie pesanti si affacciano sulla valle, guardando il monte, e vigilano la sicurezza degli uomini e delle cose.
Nell'interno del fortino, due file di tende disposte in ordine perfetto ai lati di un pozzo artesiano, ospitano la guarnigione. Un manipolo di legionari, al comando di un ufficiale, presidiano il baluardo di italianita' sperduto nell'immensita' delle ambe e dei pianori dei Tembien.
E' il mattino del Sabato Santo. Tutto e' quiete e calma. Tra le rocciose pareti del ricovero di guerra, che ospita cento uomini ed una sola volonta'. Le sentinelle compiono tranquillamente il loro turno di guardia, mentre i militi liberi dal servizio stazionano in vicinanza delle tende, affaccendate nelle consuete occupazioni, o intenti a rileggare per l'ennesima volta la lettera giunta da casa o contenente un appassionato e fervito augurio per la imminente ricorrenza Pasquale.
Improvvisamente la voce di una delle scolte lancia l'allarme: gruppi di indigeni armati percorrono la mulattiera in direzione dell'Amba Tzellere'.
Immediatamente l'ufficiale comandante il posto, accorso con prontezza all'osservatorio, si rende conto di cio' che sta accadendo.Uno dei pochi gruppi avversari, scampati nei mesi avanti e come per miracolo, alla caccia dei "nostri", dopo aver vagato per giorni e settimane in cerca di una via di scampo, tenta ora, con il coraggio della disperazione, di forzare l'unico passo che gli si para davanti e raggiungere le sponde del Tacazze', in un diperato quanto ipotetico tentativo di salvezza.
Senza porre tempo in mezzo, il capomanipolo chiama a raccolta i suoi uomini. Non sono trascorsi due minuti dals egnale di allarme, che le Camicie nere sono gia' pronte ai loro posti di combattimento.
Le mitragliatrici iniziano il coro e la canzone di guerra eccheggia gia' nella gola, ove gli abissini si vedono tagliate le vie per avanzare o retrocedere. Serrata tra due barriere di proiettili, la schiera nemica e' costretta a fare il giuoco dei difensori del fortino ed a lanciarsi contro i trinceramenti.
L'urto poderoso, ma previsto perche' voluto, e' fronteggiato con fermezza e sangue freddo dai legionari che dalle feritoie fanno piovere sugli assalitori una tempesta di piombo.
Fermo, accanto ad un puntatore di mitraglia, l'ufficiale impartisce con sicurezza gli ordini e dirige l'azione. Vicino a lui, in piedi e senza curarsi di mettersi al riparo, dai colpi nemici un milite spara un caricatore dietro l'altro, senza dar peso ai proiettili che gli fischiano vicino.
L'ufficiale osserva la Camicia nera, guarda con insistenza quel legionario, che giunto da molto tempo al reparto, richiama solo ora la sua attenzione. Lo osserva, non puo' distogliere lo sguardo da lui, e si domanda dove e quando ha veduta quella figura maschia, che ora, nello spasimo del combattimento, appare maggiormente decisa e virile.
Il milite si vede osservato e, come per nascondersi alla vista dell'ufficiale, gira lestamente la testa. Nel movimento quasi repentino il casco, messo su alla etsta e senza la protezione del sottogola, gli cade a terra e un ciuffo di capelli corvini viene a spiovergli sulla fronte.
Vedendolo cosi' di profilo e con quel ciuffo spiovente, l'ufficiale ha la subitanea rivelazione. Si rivede a Sarzana, in un sanguinoso pomeriggio del '21, rivede un giovane aitante e forte, con una ciocca di capelli bruni sparsi giu' per la fronte, che con un fucile da caccia tra le mani, spara e spara contro i fascisti...
Quell'uomo, non piu' tanto giovane, ma con la stessa decisione disegnata sul volto, e' ora li' nell'isolata ridotta del Tembien, che spara e spara ancora...
Soltanto il suo sguardo non ha piu' riflessi di odio, ma lampi di entusiasmo e di commozione. E dal suo collo non pende piu' lo straccio rosso, ma sventola una fascia nera listata di tricolore. L'ufficiale gli si avvicina e fa segno di volergli parlare.
- Comandi, signor Tenente - dice il milite con voce malferma.
- Sei di Sarzana, tu? - domanda il capo manipolo.
- Signorsi', sono di Sarzana.
- Eri la' nel '21?
- Signorsi'. Soltanto - aggiunge, mentre la sue mani fremono e sembrano reggere a malapena il peso del moschetto - allora eravamo un po' lontani. Molto lontani, signor Tenente. - E come se avesse detto troppo, imbraccia nuovamente l'arma e riprende la sparatoria.
Sempre in piedi e sempre piu' incurante del pericolo, il milite, con il suo ciuffo di capelli e la sua fascia nera al vento, combatte e sfida impavido la morte. Intorno a lui fischiano i proiettili e crepita la mitraglia. Ma nulla sembra scuotere quel legionario, che preso dalla bellezza della lotta e dimentico di tutto, e' proteso con il suo spirito anelante verso la vittoria, che ormai sta per arridere alle Camicie nere.
Come un automa, carica e ricarica il moschetto con movimenti precisi e mirati. Soltanto i suoi occhi brillano di una luce di gioia ed emanano una fiamma di ardente volonta'.
Come un turbine, una raffica di piombo lo investe, lo martoria nelle carni, lo fa cadere al suolo sanguinante. Senza un lamento, si accascia e stringendo a se' la sua arma, volge lo sguardo all'ufficiale, come in un estremo richiamo.
L'ufficiale si avvicina al caduto e lo osserva in silenzio.
- Signor Tenente - dice il ferito con un filo di voce - e' vero, sono io, ha indovinato...Ma ora sono un altro, perche' ho veduto la luce, perche' ho compreso l'errore. La luce mi ha illuminato e sono partito volontario. La luce... - un sussulto di agonia interrompe la flebile voce del moribondo. Due tratti di liquido vermiglio sgorgano dalla bocca contratta dal dolore, il corpo straziato si contorce nello spasmo supremo e dalle labbra grondanti di sangue escono le ultime confuse parole:
- Signor Tenente, muoio...Per l'Italia, per il Duce, per la mia nuova fede...Domani e' Pasqua...I miei bimbi aspettano il babbo..Oggi e' festa, e' il Sabato Santo. Le campane suonano, suonano le campane...le sente lei?...Suonano la resurrezione, la mia resurrezione.
Un ultimo rantolo, e l'anima del legionario raggiunge in cielo quelle di mille combattenti, come lui eroi, come lui martiri dell'idea.
Il tenente si inginocchia davanti al capo del caduto e si fa il segno della Croce. E sembra all'ufficiale di sentir risuonare il festoso dindolare delle campane, che in quel mattino di Sabato Santo annunziano, come quella del Signore, la resurrezione di un'anima italiana.
Dino Corsi
http://www.97legione.siena.it/
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