Il Telegrafo del 13 dicembre 1935
Noi e gli indigeni del Tigrai
Tigrai Orientale, novembre
"Salute soldati d'Italia! Dio sia con voi! E Dio e' con voi! Lui, che e' luce, grandezza, bonta' e potenza, vi ha madati a noi per il bene delle nostre genti, per la salute dei nostri corpi, per la liberta' degli uomini, per la redenzione delle terre e per la salvezza del nostro popolo. Dio e' con vi e noi siamo con voi. Salute, soldati d'Italia".
Ecco la libera traduzione dall'amarigua' dell'indirizzo di omaggio e di saluto pronunziato dal capo di un villaggio tigrino al giungere delle truppe italiane. Parole che, nella loro semplicita', dimostrano come le popolazioni del Tigrai, abbiano accolto e salutano l'avanzata dei soldati d'Italia, apportatori di liberta', progresso e civilta'.
Intelligente, sveglio e comprensivo, il tigrino ha subito compreso l'importanza dell'occupazione italiana e i vantaggi che questo reca e rechera' nella regione liberata definitivamente dal regime feudale instauratovi dai ras, vere sanguisughe umane. Ed il soldato italiano e' stato accolto, non come il conquistatore temuto, ma come il liberatore accolto.
Il soldato italiano, "l'uomo che sa tutto", come dicono gli indigeni, ha, in pochi giorni, mostrato alle retrogradi genti del Tigrai la volonta', la capacita' e la potenza di quella razza, atta piu' ogni altra a redimere terre e uomini.
Le nuove vie di comunicazione aperte con titanico sforzo dalle truppe di occupazione, gli impianti idriciinstallati dalle sezioni del Genio, le rudimentali ma sane costruzioni in pietra erette a ricovero dei soldati nelle localita' piu' disagiate, gli ambulatori sorti come per incanto tra il verde delle boscaglie e delle praterie ed i viveri distribuiti in gran copia ai piu' bisognosi, hanno dimostrato agli indigeni come, sotto un buon governo, si possono attraversare monti e valli con rapidi e comodi mezzi di trasporto; come sia possibile dissetarsi senza dover rubare ai vermi e ai ranocchi l'acqua stagnante dei malsani fossi; come sia possibile costruire abitazioni molto piu' comode, piu' spaziose e piu' sane delle anguste, oscure e luride capanne di fango e paglia; come si curano e guariscono le malattie, anche le piu' terribili, senza che sia necessaria l'opera degli stregoni (opera inumana, talvolta crudele e sempre inutile); e come si possa, se vinti dall'indigenza, sfamarsi, senza l'umiliazione di stendere la mano ai passanti.
Ed il tigrino, che vede, apprezza e considera, ripete con i suoi capi: Dio vi ha mandati, Dio e' con voi. Ed io sono con voi.
Commercio e scambi
Piu' che agricoltore, piu' che pastore, l'abitante del Tigrai e' un commerciante nato. La vora la terra, e' vero, e conduce le mandrie al pascolo, ma solo per quel tanto che e' necessario ai suoi bisogni molto limitati e, fino a ieri, alle un po' meno limitate esigenze dei ras e dei signorotti abissini. Quando pero' gli si aprono orizzonti per commerciare, all'indolenza rivelata nell'agricoltura e nella pastorizia, subentra una pronta ed alacre attivita', e l'intelligenza della gente tigrina si rivela in pieno.
Al nostro giungere, appena stabiliti quei rapporti di cordialita' dei quali ho parlato, e' stato un sorgere di mercati e mercanti improvvisati che ci hanno meravigliati per la loro prontezza nel fiorire sempre piu' numerosi.
Prodotti del suolo, dai piu' comuni legumi ai piu' rari frutti esotici, prodotti della pastorizia, dal belante capretto al saporito burro, pollame, uova, caffe', zucchero, the', tabacco e tutta una lunga serie di merci piu' avanzate sono state oggetto di compravendita tra i soldati e i mercanti indigeni.
Contrattazioni lunghe e laboriose, discussioni interminabili...ed incomprensibili, dato che l'italiano non ha nulla in comune con l'amarigua', richieste clamorose ed offerte da donnicciole del popolo, sospetto di imbroglio reciproco e l'ignoranza sul valore del tallero da una parte, e su quello della Lira, dall'altra, minacciarono nei primi giorni di porre termine ad una attivit' commerciale appena sul nascere. Ma l'intervento dei nostri sempre gentili ascari che si offrirono spontaneamente come interpreti servi' ad apianare gli ostacoli ed aprire la via alle vendite e agli acquisti. Poi, come sempre avviene, con il subentrare della fiducia, le contrattazioni divennero meno lunghe, le discussioni si resero comprensibili ed il valore del tallero e della lira conosciuto...e considerato, tanto da rendere inutile l'ulteriore intervento degli interpreti.
Con il commercio sono fioriti gli scambi. Scambi inverosimili per la loro natura e, se non si pensasse che avvengono sotto il cielo dei tropici, quanto mai insensati. L'indigeno ama tutto cio' che e' luccicante e risplendente, si adorna e adorna la capanna con stoffe colorate e con gingilli semplici e senza valore purche' lucenti e di effetto.
Cosi' per un piasco vuoto si sono avuti e si hanno due polli; per due bottoni di ottone una dozzina di uova; per un vecchio elmetto coloniale di tela e sughero, un giovane capretto; per un fazzoletto di seta multicolore una stoia di legumi; e, tempo e spazio permettendo, si potrebbe continuare ancora per un bel po'.
Un articolo poi, che si potrebbe scambiare per una merce di gran valore, e' l'ombrello. In Abissinia, e particolarmente nel Tigrai, non vi e' maggior segno di eleganza e distinzione del modesto e abbastanza ingombrante ombrello. E per uno di tali oggetti, ogni indigeno fornito di un po' di amor proprio, pagherebbe un occhio della testa. Ho ragione di credre, che per uno di quegli immensi parapioggia verdagnoli, ambizione dei nostri vecchi contadini e mercanti di bestiame, il tigrino raffinato e, secondo il proprio modo di pensare, all'altezza dei tempi, darebbe, se non proprio tutto il suo avere, almeno una parte di questo e cioe', a seconda dei casi e delle possibilita', un vitello da latte, sette o otto capre o...la figlia piu' giovane.
Disgraziatamente il fante non porta l'ombrello...Ma i commercianti italiani sono avvisati: ombrelli verdi in Abissinia, per i "gaga' " e gli elegantoni. Ed ombrelli, possibilmente metallici e blindati, per il Negus e compagni.
Capanne e villaggi
Niente di piu' triste e, si scusi il termine, ributtante di una capanna. Di una di quelle capanne dove gli indigeni vivono e vegetano. Poche manciate di fango e pezzi di legno marcito formano le pareti di quelle tane che, per quanto possa sembrare impossibile, servono di abitazione a creature di Dio.
Soffitta e tetto sono tutto un ammasso di paglia e di sterpi secchi. E qui nidificano uccelli rapaci e grossi topi ed una infinita' di altri animali ed animaletti che e' preferibile non menzionare.
L'interno della capanna non puo' paragonarsi a quello della stalla, poiche' i nostri stallieri se ne offenderebbero. Ed a ragione. Un odore nausante, un ammasso di stracci di colore indefinito ed un assieme misero e bestiale colpiscono l'olfatto, la vista e il cuore dell'europeo, che ha il coraggio di entrare in uno di questi miseri tuguri.
Poche stuoie di canna d'india, alcune bracciate di paglia putrida in funzione di giaciglio, vasi ed anfore di terra cotta, insieme ad un ammasso di stracci e poche cianfrusaglie...decorative, costituiscono l'arredo del "tucul", della casa dei "cristiani" del Tigrai.
Miseria, sporcizia, oscurita' e mancanza d'aria. Niente altro nella misera capanna del tigrino. Nient'altro all'infuori di una fiammella di luce divina che brilla in ognuna di queste tane. Una fiammella che da' un'impronta di umanita' a questi covi da bestie: la Croce di Cristo. Un ricco crocefisso d'argento, pendente da una delle pareti, ricorda al visitatore che il "tucul" dell'indigeno non e' una tana da fiere, ma una casa di creature umane, che attendono da tempo, e stanno ormai per sentire suonare, l'ora della redenzione.
L'esterno della capanna e' un ammasso di letame, di sporcizia e di avanzi fetidi. Dieci, venti, cento capanne formano un villaggio. Ed un villaggio e' un covo di infezione, un focolaio delle piu' terribili malattie. Bisogna vederli questi villaggi, bisogna internarsi tra il dedalo delle capanne, occorre vincere la ripugnanza e spingere la testa oltre l'apertura del "tucul", per comprendere come vivono queste genti, che sono tra le piu' civili dell'Impero Etiopico!
La sporcizia che abbonda nei villaggi e nelle abitazioni si mostra, con tracce anche troppo eveidenti, pure sui capi e sugli abiti degli indigeni.
Particolarmente le donne e i bambini sembrano seere a digiuno di ogni piu' semplice nozione di igiene e dimostrano di non sapere e di non aver mai saputo che l'acqua, oltre a cucinare e a dissetare, puo' servire anche per lavare le carni ed i cenci che le ricoprono.
Abbiamo veduto indigeni dar segni di sorpresa nel vedere dei soldati prendere un bagno nella acque di un fiume. E bambini piangere e gridare al solo tentativo di far loro tuffare le nere manine in un bacile colmo d'acqua pura e limpida.
Episodi questi che danno a avedere lo stato di incivilta' e di quasi ebstialita' di un popolo, che i pacifisti, per partito preso, vorrebbero condannare a rimanere tale...in omaggio alla civilta'.
Primi segni di romanita'
Pochi giorni di occupazione italiana sono pero' serviti, se non a cambiare del tuto la mentalita' degli indigeni (ce ne vorra' del tempo, prima che civilta' possa aver fatto presa nelle menti di queste genti), almeno a fare ad essi apprezzare i primi vantaggi del vivere civilmente e dell'igiene.
Gli accampamenti militari, sparsi un po' ovunque nel Tigrai, dal Mareb a dal belesa fin sulle linee avanzate, sempre puliti e ben tenuti come dei giardini, hanno spinto gli indigeni a vincere l'inata indolenza e dedicare alcune ore del giorno alla pulizia e alla messa in ordine dei propri villaggi. e, sempre per spirito di emulazione, i tigrini si sono dati da fare per allargare le strette mulattiere e gli impraticabili sentieri, che da valle per i monti conducono alle loro...abitazioni.
Ed i fiumi hanno ospitato nel loro letto i corpi di tanti e tanti bambini ed adulti, non piu' timorosi delle acque, ma bensi' desiderosi di queste come sono desiderosi di apprendere e mettere in pratica tutti i vantaggi che la civilta', portata in queste terre dalle legioni della nuova Italia, mostra ai loro occhi sempre e sempre piu' spalancati dalla sorpresa e dal piacere.
E, riconoscenti, dimostrano, come possono la loro gratitudine. Sia, seguendo l'esempio dei soldati e lavoratori per dare al loro paese una nuova improta - impronta di romana civilta' - sia offrendo i doni piu' svariati alle truppe ed ai comandanti di queste e sia dimostrandosi gentili, cortesi ed ubbidienti in ogni circostanza.
Al primo giungere delle truppe, i rari indigeni che incontravamo lungo le piste carovaniere e su per gli scoscesi sentieri montani, atteggiavano appena un cenno di saluto e pronunziavano quasi a fior di labbra il rituale: "Salam!"
Oggi, invece, sia un reparto in marcia o sia un solo soldato che incorcia lungo la via uno o piu' indigeni, il saluto e' franco, spontaneo e detto ad alta voce da labbra atteggiate al migliore dei sorrisi: "Salute, italiano. Dio e' con te!"
E le braccia si alzano e di tendono nel saluto romano; braccia di donne, di uomini e di bambini, nere come le nostre "fiamme" e salde come i nostri pugnali, dicono con un sol gesto al mondo intero che le aquile di Roma hanno gia' impresso con i loro rostri delle orme indelebili nella terra che fu ieri dei barbari e che oggi e' dominio della civilta' e del progresso.
Dino Corsi
http://www.97legione.siena.it/
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