lunedì 18 luglio 2016


Il Telegrafo del 10 settembre 1942
Quando il buondì si vede dal mattino (I parte)

Fronte Russo, settembre
Sbattono ancora i cucchiai entro le gavette alla ricerca dell'ultimo cannellone di pasta, nel campo è il caratteristico andirivieni che sempre segue la consumazione del rancio serale. Gli uomini, giunti a termine della giornata più o meno intensamente vissuta, si preparano chi al riposo, chi a dedicare un'ora ai suoi cari attraverso la corrispondenza, chi ad effettuare una sia pur sommaria pulizia ai capi di vestiario e chi, infine, a vegliare sulla tranquillità dell'accampamento e sulla sicurezza dei camerati.
Le vedette e le pattuglie raggiungono i posti di guardia. Uomini che in un modo o nell'altro han lavorato dall'alba al tramonto si accingono a trascorrere in bianco la notte, moschetti serrati tra le ferree dita, bombe nelle capaci tasche, elmetto sugli occhi sempre fissi nella vigilanza, nervi tesi e pronti alla scatto.
Il fronte è tranquillo da varii giorni. Appena, appena qualche rara sparatoria notturna e qualche ancor più raro scontro di pattuglia ricordano che al di là del fiume ci sono i russi. La tranquillità che aleggia sulle due sponde del Don può essere foriera di burrasca, ma momentaneamente è la calma scocciante che impera; è questa attesa di ciò che potrà avvenire, come e quando nessun sa, a mettere a dura prova i nervi dei legionari.
Se qualcuno proponesse di guadare a piedi il Don -in alcuni punti facilmente attraversabile, perchè poverissimo di acque - per recarci a far visita ed a disturbare il sonno dei bolscevichi, tutti gli uomini sarebbero contenti rinunciare al riposo e romperla colla scocciatura, necessaria quanto si vuole ma sempre sgradita, dei "reparti in posizione d'attesa".
Ecco perchè al giungere improvviso di un porta-ordini motociclista, seguito da segni di movimento precursore di novità, al Comando Battaglione, le Camicie Nere, anche quelle che si erano già stese al suolo avvolte nelle coperte da campo, scattano, si fanno intorno, alle sedi del Comando Compagnia in cerca di informazioni. Il campo si anima, si incrociano le previsioni più disparate, taluni provano e riprovano e riprovano la scorrevolezza dell'otturatore, altri verificano la sicurezza delle bombe a mano.
Senza che nulla sia trapelato, senza che nessuno abbia parlato - il porta-ordini potrebbe anche essere latore di normali comunicazioni di servizio - si spande per l'aria odor di polvere. Ed in tutti è la certezza che se novità vi sono, saranno buone, cioè probabilità di menar le mani. E così è infatti.
Sono trascorsi appena pochi minuti e gli ordini giungono precisi ai reparti. E' segnalato un nucleo di partigiani in località distante una trentina di chilometri. Occorre eseguire subito la bonifica della zona. Centoventi uomini partiranno tra un quarto d'ora, gli altri rimarranno sul posto.
I centoventi uomini son trovati all'istante tra le centinaia che vorrebbero partire. I prescelti esultano e preparano la borsa tattica - bombe, munizioni e viveri di riserva -; gli esclusi mormorano e maledicono il destino. Qualcuno impreca contro "la solita camorra, i favoritismi ed i privilegiati". Perchè il dover rimaner al campo, anche se il campo stesso sorge in primissima linea, è considerata un'offesa personale quando altri si muovono per far "qualcosa di buono".
Il console assume personalmente il comando del reparto di formazione. Si parte che è quasi notte. E, naturalmente, si parte cantando.
Il canto è per i legionari un alimento di prima necessità. Marciando, lavorando, combattendo, sempre in tutte le manifestazioni della sua esistenza guerriera il soldato italiano si abbandona al sonoro godimento e trae da questo spinta per il corpo e fuoco per lo spirito.
Sulla pista polverosa si eleva un coro alpino. Sono i nostri camerati trentini che hanno intonata una suggestiva canzone delle loro vallate. Il tono lento delle note marca il passo alla truppa: passo da montanari, lungo e calmo, sulle steppe russe. Il comandante, come suo solito, marcia in testa alla formazione ed unisce la sua voce al coro dei legionari.
Per un'ora circa si avanti senza incontrare un segno di vita. Solo la steppa colle sue erbe ed i suoi rari cespugli si para davanti ai nostri sguardi. ad X.... incrociamo una sezione sussistenza.
I bianchi tendoni, alla sommità dei quali fan capolino i cilindrici tubi dei forni da campo, danno vita al paesaggio e ne rompono l'assillante monotonia. I camerati panettieri sbucano un pò dappertutto e ci vengono incontro agitando le braccia nude ed infarinate fino al gomito.
questi bravi ragazzi che combattono la loro battaglia nelle immediate retrovie del fronte, questi oscuri eroi di cui mai nessuno parla e che pertanto sono in linea, sempre, notte e dì, questi soldati della sussitenza, molto spesso chiamati ad impugnare il moschetto tra le mani ancora impastate di acqua e farina, godono le generali simpatie dell'Armata, anche se talvolta il pane da essi confezionato, con mezzi sovente di fortuna, non esce dal forno perfetto come sempre si vorrebbe.
Tra soldati e legionari si scambiano saluti, auguri, e naturalmente, ne salta fuori anche la solita cordiale sfottitura.
- Che andate a caccia di grilli? - domanda un ragazzino ventenne, sorgendo fuori da un cumulo di sacchi vuoti e tutto infarinato come un mugnaio, ad un barbuto milite che potrebbe essere suo padre.
- No, risponde la camicia nera, vado a cercarti la balia. Ed aggiunge: Tu "boccia" resta a casa e procura di cuocer bene il pane, che ci fate sempre mangiare pasta cruda!
- E che vorreste senza carta annonaria? Grissini vorreste? - ribatte allegro il "boccia". E spalancata la bocca in una spontanea risata torna a rinsaccarsi nel suo strano giaciglio.
La marcia prosegue nella notte. Or da questo or da quel plotone una voce si leva a dare il "là" ad una canzone. E tutta la compagnia si desta nel canto ed accelera l'andatura.
La stanchezza comincia a farsi sentire un pò in tutti, le cinghiette delle borse tattiche, strigendo forte le spalle, rivelano a noi stessi la non piena corrispondenza del fisico. Ma la volontà di andare avanti è più forte della fatica. Si deve giungere ad una determinata località e vi giungeremo. Si marcia da cinque o sei ore quando il fischietto del comandante sibila nel segnale di "alt". Poi, secca, la sua voce risuona nella notte: "Serrate sotto, non perdere il collegamento, non fumare, silenzio assoluto. Ci attesteremo a mezz'ora di strada da qui".
Si riparte ed a termine dei trenta minuti sostiamo nei pressi di un villaggio, quello ove è stato segnalato il nucleo di partigiani.
Siamo nel recinto di una grande fattoria. La recente trebbiatura, effettuata a cura dei nostri comandi, ha lasciato la sua traccia in un provvidenziale pagliaio che fornisce i giacigli alle membra provate dallo sforzo. Predisposte le solite misure di sicurezza, gli uomini si abbandonano al riposo. Tre ore si sonno saranno più che sufficienti a ritemprare i corpi.
Una pattuglia va in ricognizione al vicino abitato. Si procede a tentoni nelle tenebre, guidati sul nostro cammino dalle macchie bianche dei silo granari. Il bagno involontario in un ruscello giunge propizio anche se sgradito a rinfrescare le idee un pò ottenebrate dal sonno e dalla stanchezza. Giungiamo alle prime abitazioni del paese. Le porte spalancate e le finestre orbe di vetri non ci invitano a sostare, ci interniamo nel dedalo delle luride viuzze traboccanti di immondizie e rifiuti d'ogni genere.
Ad una curva andiamo a sbattere contro la massa di un carro armato. Il mostro dorme il suo ultimo sonno e pare che sghignazzi attraverso il foro della perforante che ne ha squarciata la torretta. Sullo scafo scorgiamo il segno della sua nazionalità: la stella rossa. E' l'unica stella in questa notte senza luce. E naturalmente non brilla.
Anche qui è passata la guerra. Noi stessi, forse, nella rapida corsa tra il Donez ed il Don attraversammo il villaggio. Ma come possiamo dirlo con precisione se questi paesi rurali russi si assomigliano tutti nella loro miserevole urbanistica? Per di più le tenebre non ci consentono nessuna visibilità. Procediamo a tentoni nella ricerca di un segno che riveli la presenza di uomini.
L'abbaiar di un cane ci guida verso una casa che, per aver tutte le imposte chiuse, ci appare abitata. Battiamo ai cristalli di una finestra. Ci risponde prima l'accendersi di un lume, poi, tremante, una voce di donna. Chiediamo dello "stàrasta" - il capo villaggio - La donna, evidentemente in preda a chi sa qual terrore, non sa darci precise indicazioni. Sembra, col suo tremulo mormorio, implorare pietà. E non sa, la poveretta, che le nostre intenzioni nei suoi riguardi sono le più pacifiche.
Ma tanta è la di lei paura che non riusciamo a convincerla. Forse questa donna, cresciuta in un regime di terrore, rimembra altri soldati che in lontane notti batterono alle case dei poveri contadini e portarono loro morte e distruzione.
Finalmente, da una capanna vicina, sbuca un vecchietto tutto imbacuccato in una specie di veste da camera che lo copre fino ai piedi. Ha udita la nostra richiesta e ci farà da guida fino all'abitazione dello "starasta" alla quale giungiamo in pochi minuti.
Il capo del misero villaggio è un ometto insignificante che si profonde in complimenti e gentilezze. Che sia sincero non si può affermare, giacchè nei suoi occhietti di faina, unica cosa viva sulla sua faccia priva di espressione, è una strana luce che in una notte assai lontana vedemmo brillare nelle pupille di uno sciacallo affamato e pronto a mordere chiunque lo avvicinasse.
Sincerissimo nella sua gentilezza, lo "stàrasta" ci fornisce le utili informazioni richiestegli. I partigiani, dopo aver prelevato a mano armata i viveri loro occorrenti e minacciati gli abitanti, si sono diretti in una data località, a cinque ore di marcia. Ciò significa che la nostra fatica è appena all'inizio, giacchè giovando battere il ferro quando è caldo, occorrerà inseguire la preda.

Dino Corsi

Il Telegrafo del 23 febbraio 1943
Dalla Russia una voce tanto cara ai senesi da tempo non giunge

Era una voce piena di entusiasmo per la causa della Patria, era una voce piena di nostalgico amore per la terra natia, piena di tenerezza per tutte le madri, le spose, le sorelle, che hanno dovuto staccarsi dai loro cari congiunti chiamati a combattere tra le gelide steppe della Russia; era un legame forte e dolce ad un tempo che mitigava la distanza, che rendeva men duro il distacco quella che Dino Corsi faceva udire attraverso le colonne del nostro giornale.
Dino Corsi, legionario, combattente di tutte le guerre, animatore instancabile di ogni manifestazione fascista, che ha portato ovunque volontariamente l'entusiasmo della sua giovinezza, la generosità del suo cuore, i frutti della sua mente illuminata è dato per disperso. Disperso in Russia nei combattimenti avvenuti dall'11 al 24 dicembre dopo che aveva potuto dare mille prove di ardimento e di amor patrio.
Se la notizia ci ha dolorosamente sorpresi, non ci ha certamente abbattuti, poichè è viva in noi la speranza che egli tornerà. Dino Corsi tornerà anche dalla Russia, come tornò per due volte dall'Africa, come tornò dalla Croazia.
E Siena l'attende come allora, ansiosamente, per fargli sentire il fremito del suo cuore materno che, per lui, come tutti i suoi eroici figli lontani, ha battuto e batte forte nell'attesa.
Nella sua ultima corrispondenza "Colloqui con Siena" Dino Corsi tra l'altro diceva: "Cosa avverrà lassù nella mattinata della Natività? Sarà pace e raccoglimento la vita nostra, oppure il rosso tenterà dall'altra sponda di frangersi ancora le ossa contro li muro dei petti italiani? Chissà. Noi non possiamo dirtelo, cara Siena, e potremmo anche non più potertelo dire, giacchè il Natale di guerra reca nel suo fardello i doni più impensati, non ultimo quello della Eterna gloria".
Caro Dino, quando tu scrivesti queste parole ancor più vivo e bruciante doveva essere in te il ricordo della tua Siena ed il murmure lieve di Fonte Gaia doveva sembrarti tanto vicino e doveva sussurrarti all'orecchio le più soavi espressioni materne. E tu, per un attimo, forse temesti di non poter tornare, non già per viltà, ma per amore, per amore verso chi qua ti attende!
E la tua buona mamma, le tue sorelle, i tuoi amici tutti confortati dalla speranza del tuo ritorno, speranza che vibra in noi come una certezza, pregano Iddio affinchè voglia presto farci riudire la tua voce tanto cara e fiduciosa nei destini della Patria nostra.

ELLEFFE.


La Camicia Nera Di Palma, degente nell'Ospedale Militare San Marco con provenienza dalla Russia - ci ha parlato con devoto entusiastico affetto del nostro Dino Corsi da cui non riceviamo da circa due mesi alcuna corrispondenza. Il Di Palma appartiene alla stessa Compagnia del Battaglione "M" di cui fa parte Dino Corsi e con lui ha vissuto e combattuto per vari mesi in uno stesso irrefrenabile slancio, in un cameratismo fraterno che ci è stato rivelato con toccanti frasi quali possono uscire da un semplice gagliardo cuore di soldato votato con assoluta dedizione alla Causa della Patria.
Fedele per tutta la sua vita all'entusiasmo per l'Idea, Dino Corsi si distinse subito in terra di Russia per il suo ardimento, per lo sprezzo del pericolo, per il suo sereno ottimismo che è stato sempre di conforto e di esempio ai compagni legionari.
L'ultima volta Dino Corsi fu veduto dal Di Palma il 19 dicembre; egli può dunque considerarsi disperso nel periodo che va da tale data al 24 successivo. Ma poichè le esigenze della situazione verificatasi in seguito alla Campagna difensiva dell'Est non consentono per ora normale recapito di corrispondenza o comuqnue il giungere di precise notizie noi speriamo con tutto il cuore che la luce si faccia presto sulla sorte del nostro amico e collaboratore e che torni la pace nell'animo dei suoi cari che hanno nel loro congiunto una viva e purissima espressione della nostra terra.

Il Telegrafo del 16 dicembre 1942
Storie di gatti, di topi e di un legionario finto tonto

Fronte russo, dicembre
G... è un paese rivierasco che specchia le sue casette, la chiesa ortodossa dal campanile a forma di minareto e la macchia verde di un boschetto di roveri nelle acque del Don. Il paese è disabitato da varii mesi. Le nostre trincee passano su un altura a poche centinaia di metri dal villaggio, da dove si dominano il piccolo centro urbano e le linee avversarie sulla opposta sponda.
Recarsi a G..., percorrere cioè il breve tratto di steppa in leggera discesa che va dalle ridotte alle prime case, è proibito. Nessuna disposizione, invero, vieta di avventurarsi nell'abitato, ma la proibizione è dovuta al fatto che sulla riva orientale del Don i russi vegliano continuamente, sempre pronti ad accogliere con il non gradito "ta-pum" dei moschetti a cannocchiale, collo sgranare di nastri e nastri da mitraglia e, infine, colla sempre fastidiosa pioggia di bombe dei loro mortai chi di noi si prendesse la briga di fare una passeggiatina tra le strade di G...
Fino a poco tempo fa la cosa era diversa. Si andava al paese; di notte, magari, ma si andava. Squadre e pattuglie han continuato un buon mese a fare incursioni tra le case semidistrutte dai tiri dell'artiglieria al fine di racimolare materiali varii, come infissi, legname, vetri ecc., atti ad una sempre migliore sistemazione dei rifugi invernali costruiti a ridosso delle trincee. Ma dài oggi, dài domani, i russi si accorsero del giochetto e giù botte da non dirsi. Per un solo uomo che si avvicinava al villaggio eran centinaia di colpi di tutte le armi a salutare il malaugurato, che messo al bivio tra il tornarsene a mani vuote a da quasi assoluta certezza di prendersi una buona razione di piombo caldo, propendeva per la prima soluzione e rientrava al proprio rifugio mormorando la frase divenuta ormai di prammatica: Disco chiuso.
Permanendo la chiusura dell'eccezionale disco, a G... è scomparso ogni segno di vita umana. Non diciamo animale perchè qualcosa di vivo e vitale esiste ancora nel villaggio: i gatti.
Quanto siano i felini domestici vaganti tra macerie e ruderi e componenti la massa corale che concerta di notte al chiar di luna sbizzarrendosi in tutta una sinfonica scala di miagolii, non potremmo dirlo perchè non abbiamo mai avuto possibilità e desiderio di contarli, ma il fatto certo è che a G... ci sono dei gatti. E per la nostra storia questo soltanto è importante sapere, dopo aver saputo che se a G... vi sono i gatti, nelle trincee non mancano i topi.
Forse perchè spaventati dalla vicinanza dei loro divoratori, i topi, tutti i topi della steppa - e sono migliaia e forse milioni - si sono rifugiati nei nostri sotterranei alloggi e la fan da padroni incontrastati tra zaini e pagnotte, tra coperte e gallette. Roba da non dirsi! Sfacciati, i topolini, fino al punto di venire a passeggiarti sulla faccia - mentre riposi -, di rintanarsi al calduccio nelle tasche del tuo pastrano, e, magari, di fare addirittura il nido dentro una delle scarpe di riserva, da te gelosamente riempite di paglia per meglio preservarle all'umidità.
E ti guardano, le bestiole, furbescamente e par ti pungano quando i loro occhietti simili a capocchie di vecchi spilli sembrano dire: I gatti non ci sono, qui comandiamo noi.
I soldati si sono dati da fare costruendo trappole su trappole, ma, si sa, son...trappole. Astuti e fini, i topi hanno imparato il giochetto: mangiano il formaggio, lasciano il loro segno, e proseguono liberamente l'andirivieni indisturbato.
Tra i più accaniti cacciatori di ratti è un legionario. Un soldato di quelli che non parlan mai, dall'aria assonnata e distratta e dall'aspetto non troppo intelligente. Taciturno e solitario per natura, è con noi eccezionalmente espansivo. Da permanente fu al 5° Bersaglieri e questo fatto ci ha permesso di entrare nelle sue confidenze. Perciò ieri, mentre in baracca si discuteva sul modo migliore per spengere la molesta schiera dei roditori e lui era intento a confezionare con filo spinato da reticolati un nuovo tipo di trappola - il dodicesimo, per la storia -, ci venne fatto di voler prendere cordialmente in giro il nostro vercchio bersagliere e gli dicemmo, sforzandoci ad apparire seri e convincenti: - Ma perchè non la pianti con codesti lavori?... Oramai la fine dei topi è decretata. Dall'Italia è arrivato un vagone di gatti.
- Davvero? - chiese lui con aria stupefatta - davvero?... E li daranno pure a noi?
- Certamente - rispondemmo. - Occorre prelavarli al Comando Compagnia: due gatti per plotone.
- Ci vuole il buono di prelevamento? - chiese ancora.
- No, senza buono... - Era assai difficile mantenersi serii, ma ci sforzammo per continuare nello scherzo, che stava prendendo una piega divertentee imprevista. Lui riprese:
- Allora vado io a prenderli? Posso andar subito?
- Ma si! Vai subito! - La risata a stento contenuta era lì lì per scoppiare. Ma resistemmo, noi e tutti i presenti, fino a che non lo vedemmo scomparire lungo il camminamento: se ne andava col suo consueto procedere barcollante, col moschetto a travolla, l'elmetto calcato sugli occhi, il bavero della pelliccia rialzato e sul collo, a mo' di sciarpa, un sacchetto vuoto, il sacchetto per i gatti!...
Dato sfogo alla propria allegria, ci attaccammo al telefono. Volevamo continuare lo scherzo, portarlo fino in fondo.
- Pronto?... Pronto?... Comando Compagnia?... Sei tu P...? Qua primo plotone... No, nessuna novità, tutto a posto... Volevo dirti questo: verrà da te F..., a prelevare due gatti... Non ridere: gli abbiamo fatto credere che ne sono arrivati un vagone dall'Italia... Come dici? Hai in trappola due topi vivi?... Benone!... Si, si!... Consegnali i topi, vedrai la faccia che farà!... Grazie...
Passò un quarto d'ora, mezz'ora; il legionario doveva esser prossimo al ritorno. D'un tratto, al di là del Don cominciò la musica: "ta-pum, ta-pum"... E giù sventagliate di mitraglia. Il concertino durò qualche minuto, poi tornò la calma. Una vedetta gridò: Sparavano verso G... C'era qualcuno nel paese: ho veduto un uomo attraversare di corsa la piana davanti alle case: era dei nostri, il grigioverde spiccava sulla neve. Speriamo non l'abbiano beccato!
- Non mi hanno beccato, ho la pelle dura io!
Ciò dicendo...quello del prelevamento fece il suo ingresso nel rifugio. Imbrattato di neve sino al ginocchio, ansante e sudato, ma col faccione sorridente e tutto soffuso da un'aria sorniona che mai avemmo supporto in lui. Depose delicatamente a terra il sacco, nel cui interno qualcosa si muoveva e, guardandosi intorno, borbottò: - Ecco i due gatti. Anche col disco chiuso il vagone è arrivato a G... Si possono prelevare ancora: ci sono gatti e proiettili per tutti. Ma non vi consiglio andar laggiù perchè voi non siete come me duri di pelle... e di testa.
Si chinò a slegare il sacco e ne trasse due gattini: uno bianco e l'altro nero. Ce li mostrò tenendoli per la collottola e disse ancora, a noi, soltanto a noi questa volta: - Non paiono la bandiera di Siena?
Vincemmo la tentazione di abbracciarlo: ma quel giorno rimanemmo senza vino, perchè la nostra razione la offrimmo a lui, al vecchio bersagliere del Quinto.

Dino Corsi

Il Telegrafo del 1 dicembre 1942
La lana del popolo è giunta ai soldati italiani

Fronte russo, novembre
Domenica di primavera in una cittadina costiera ligure, ove permanemmo circa un mese per seguire un corso di perfezionamento sulla conoscenza e l'impiego di alcune armi moderne. Sono le dieci del mattino, e noi, unitamente ad altri camerati, ci troviamo nel salone del Dopolavoro Comunale ad assistere alla cerimonia della consegna della lana per i soldati, effettuata a cura del locale Fascio femminile.
Davanti ad un grande tavolo, dietro al quale si prodigano donne e giovani fasciste, sfilano e depositano la loro offerta uomini, donne e bambini. Sono vecchi che giungino carichi del gentile fardello di indumenti e candidi foicchi! donne venute dai monti, uscite dalle ridenti villette della marina e dalle casupole dei pescatori, recanti piccole e grandi quantità di lana, doppiamente preziosa perchè al valore materiale unisce quello incalcolabile dell'affetto materno; fanciulle e ragazzi cinguettanti in dialetto, che par vadano ad una festa, tanto in essi tutto è gioia e serenità nell'atto di deporre sul tavolo l'offerta dei familiari che essi, i piccoli, hanno voluto rappresentare in questa gara di solidarietà e patriottismo.
Assistiamo a tutta una serie di significativi episodi, che ci dicono il pregio inestimabile di ogni donazione, anche della più modesta, che ci illuminano sul significato di ogni gesto, apparentemente materiale quanto invece sublimamente rispecchiante l'interiore palpito di petti italiani.
Ma la nostra ammirazione per i partecipanti alla nobile gara diviene addirittura commozione, ed un groppo ci serra la gola, e gli occhi si sforzano a contenere le lacrime, quando una donna sulla cinquantina - una popolana dal pallido volto affilato e rivelante l'interno dolore, sul quale però due pupille corvine brillano di orgoglio e sembrano unire il loro splendore a quello argenteo di una medaglia al valore che nobilita le gramaglie di un lutto recente - depone sul tavolo un grosso gomitolo di lana e dice con voce ferma: "Mio figlio è in Russia. Volevo preparargli un maglione per l'inverno che verrà, ma non avevo lana; perciò ho fatta filare quella del materasso... Ora però il mio ragazzo non avrà più freddo, mai più... Prendetela, questa lana, servirà ad un altro soldato, ad uno dei tanti nei quali rivedo il mio ragazzo che è in Russia, che resterà sempre lassù".
Ha detto "lassù" accennando il Cielo. E non piange.
Nemmeno una stilla di pianto esce dai neri occhi della mamma dell'Eroe, non un singhiozzo ha interrotto il suo dire. La donna accarezza il grosso gomitolo, così, con lieve ed affettuoso tocco di mano, come in giorni lontani sfiorava la testina ricciuta del piccolo suo, ed esce volgendo un amorevole sguardo materno a noi e agli altri militari che ci sono vicini.
Anche noi usciamo e ci portiamo in fretta sul molo. Abbiamo bisogno di vedere il mare, per affogare nella sua azzurra immensità la nostra emozione, per non piangere.


Fine d'autunno in Russia

Siamo sul Don e già i reparti hanno provveduto alla sistemazione della linea difensiva. Camminamenti - chilometri e chilometri di stretto fossato - collegano trincee e ridotte e caposaldi ai rifugi che gli uomini si sono scavati nel terreno ed hanno... autarchicamente forniti di ogni possibile conforto. Ora può nevicare, può scendere quanto vuole il termometro: abbiamo la casa.
Ma non sempre potremo vivere nei ricoveri, non sempre pe tufacee pareti potranno ospitarci. La guerra ha le sue dure esigenze. E non sarebbe guerra, e non sarebbe bella, se dovessimo cangiarci definitivamente in talpe e trascorrere i mesi della cattiva stagione sempre rintanati nei rigufi sotterranei. Anche le trincee, particolarmente queste, e le ridotte, e le postazioni recalmeranno la nostra presenza: la presenza di alcuni quando il fronte sarà calmo e di tutti quando farà caldo anche nel soffiar della tormenta.
E si potrà vivere in trincea, si potrà combattere, si potrà sempre assolvere per intero il compito affidatoci, si potrà attendere vincendo, la primavera, e si potrà guardare con fiducia all'avvenire sol perchè dalla Patria è giunta la lana del Popolo.
La lana è giunta a vagoni, a treni, a convogli.. La generosa offerta degli italiani, trasformata in caldi indumenti, è già sistemata negli zaini dei soldati e consente ai combattenti di attendere con serenità il precipare della stagione.
Il corredo invernale - soltanto quello recentemente distribuito, senza cioè tener conto degli indumenti, anche pesanti, in dotazione normale - è singolarmente il seguente: quattro paia di calzini e due paia di calzettoni, due ventriere, due farsetti a maglia e un maglione accollato, quattro paia di mutande, un paio di guanti ed uno di guantoni, un passamontagne ed un pastrano di pelliccia. Tutto di lana, tutto "grave" e quanto mai adatto alla bisogna per la quale fu manufatto. E tutto reso possibile mercè la cosciente generosità degli italiani, che con sublime slancio offrirono alla Patria la lana pei soldati, la lana per la vittoria.


Inverno al fronte orientale

Il freddo è giunto improvviso, repentino, senza farsi precedere da nessun segno premonitore.
Il novembre si è presentato bellissimo. Giornate solatie e luminose, aria calma e temperatura primaverile; tutto insomma ha coinciso a far fiorire le più rosee speranze nell'Estate di San Martino.
Ma uno dei giorni scorsi, all'alba, il cielo si oscura. A metà mattina le nubi si frangono e fino a sera è una pioggiarella insistente, e uggiosa, senza interruzione. Colla notte, però, il tempo pare volgersi nuovamente al bello.
Cessa la pioggia, sembrano diradarsi i nuvoloni e qualche lucente stella occhieggia e par ammiccare a mo' di promessa.
Intanto la linea è posta in allarme. Le pattuglie segnalano movimenti insoliti e minacciosi, il nemico dimostra velleità offinsive, le artiglierie al di là del fiume rombano senza interruzione, un attacco in forze è previsto nel corso della notte.
Vengono triplicate le vedette, tutte le postazioni hanno i serventi intorno alle armi pronti ad aprire il fuoco, le trincee si animano di umano formicolio e la pattuglie, rinforzate, si irradiano ogni dove a prevenire eventuali sorprese. La nottata si presenta per tutti insonne ed emotiva.
Sono le sei del pomeriggio. Già da oltre due ore l'oscurità regna sulla linee, quando un leggero venticello viene spirando da Nord. Par cosa da nulla, appena un pò di frescura autunnale; invece di lì a mezz'ora è la tormenta.
A turno gli uomini corrono dalle trincee ai rifugi, disfanno affrettatamente i fardelli e ritornano al posto del dovere imbacuccati negli indumenti di lana.
La tempesta infuria. Mai nella nostra esistenza abbiamo assistito ad un simile scatenarsi di elementi avversi. Per ore ed ore il vento muggisce ed a momenti domina col suo ululato il deflagrare della granate; la neve gelata, prima di rivestire il terreno di un cristallino lenzuolo, sferza e taglieggia le faccie. Coi nervi tesi sino allo spasimo, accecati dalle raffiche di nevischio, le membra semi intorpidite dal gelo, si conta il volgere delle ore, si serrano i denti e si rimane fermi al posto di combattimento. Dire lo sforzo al quale vengono sottoposti corpi e cuori durante la prima nottata invernale, trascorsa in linea in attesa del nemico, sarebbe impossibile e del resto inutile, giacchè ciò rientra nella normalità della vita del soldato al fronte russo.
Al mattino, quando rientriamo nei nostri ricoveri, il termometro segna 25 sottozero. I pastrani di pelliccia sono trasformati in cappe di ghiaccio, tutto il corpo è preso da un lieve torpore, ma il primo contatto coll'inverno, col vero inverno russo, è stato brillantemente superato, mercè l'elevato sentimento del dovere della truppa, lo spirito di sacrificio dei combattenti italiani, il fisico eccezionale della nostra razza ed anche - e principalmente - in virtù delò gesto di solidarietà umana e patriottismo compiuto in un giorno di primavera, da tanti uomini, donne e fanciulli italiani, che si privarono del superfluo, forse del necessario e magari dell'indispensabile per offrire la lana ai soldati.


***



Ogniqualvolta, durante la nostra operosa giornata, usciamo dal rifugio, ed attraverso il camminamento ci portiamo allo scoperto laddove il dovere chiama, rialziamo il bavero della pelliccia, serriamo il collo del maglione, calchiamo il passamontagne e ci aggiustiamo i guanti. La lana, col suo tepore, ci accarezza e ci ricorda la mano di una mamma italiana, che in una cittadina ligure, in un lucente mattino di aprile, sfiorò con amore il gomitolo di lana filata per la maglia del figlio soldato. Quel figlio eroico che è in Russia e non più ha ormai bisogno di indumenti; perchè lui non teme il freddo e non paventa la bufera, ricoperto com'è di gloria e riscaldato dal fuoco che l'orgoglio e il dolore fanno divampare nel cuore della sua buona mamma.

Dino Corsi

Il Telegrafo del 28 novembre 1942
Quadretti di guerra

L'Eccellenza il poeta
Alto, grosso, robusto quanto mai. Lo chiamano "carro armato". Quando passa trema la terra, quando parla tremano i teli della tenda. Ma è semplice, di una semplicità quasi impossibile. E timido, rispettoso, disciplinatissimo. Siamo certi che al suo paese - dieci case piantate a pimpinnacolo in un picco dell'appennino abruzzese - quando parla colla guardia campestre si mette sugli attenti e risponde "signorsì" e "signornò".
Era vicinissimo a noi, gomito a gomito, il giorno in cui l'Eccellenza Marinetti -il sessantacinquenne poeta, che colla sua presenza al Fronte nelle fila legionarie conferma la eternità dei vent'anni - ci fu presentato dal nostro generale. E ci fu presentato, oltre quale capo del movimento futurista e quale valoroso poeta e combattente, anche come Accademico d'Italia. Il generale lo chiamò Eccellenza.
Poi Marinetti parlò. Cioè, non parlò, ma cantò la Patria, le glorie d'Italia, la certezza della Vittoria. Sulle sponde del Don, dalle labbra del Vate, si levò una canzone di tanta suggestiva bellezza, così pervasa di amor patrio e sentimento che tutti ne fummo commossi ed entusiasti. Anche il nostro "carro armato".
Alcuni giorni dopo, lui, "carro armato", preso il coraggio a due mani ci domandò: "Dicetemi, mò chillo teniente colonnello che facette lu discorso da bravo, chillo perchè è diciuto eccellenza?"
Cercammo di spiegargli che il titolo deriva dal fatto dell'esser Marinetti Accademico, e che egli è tale perchè poeta ecc. ecc. Credemmo di averlo edotto abbastanza chiaramente, quando mormorò: "Così chillo è eccellenza perchè scrive le poesie?"
"Già", rispondemmo. E non sapemmo aggiungere altro. E lui, di rimando: "E voi, voi le scrivete le poesie?"
Quel diavolo ci spinse a mentire e rispondergli come rispondemmo, non sappiamo. Ma, quasi inavvertitamente, ammettemmo: "Si, qualche volta anche noi scriviamo poesie".
"Carro armato" non chiese altro. Ma da quel giorno, ogni qualvolta lo incontriamo il suo saluto si fa sempre più rispettoso, quando ci avvicina arrosisce, parla di noi coi supoi paesani come esseri eccezionali, ed ormai ci attendiamo soltanto di vedercelo comparire davanti, piantarsi sugli attenti e, steso il braccio nel saluto romano, mormorare con voce tonante anche se un pò tremula: "Buon giorno, eccellenza..."


Il diario di un fante
"Guarda, ci disse un ufficiale del ... Fanteria il giorno successivo a quelli della battaglia, guarda un pò questo librettino, osservalo bene... E' un diario, il diario di un mio fante caduto l'altro ieri... E' tutto un poema epico!... L'ho rinvenuto poco fa tra le robe del Morto... lo manderò a sua mamma".
Sfogliammo le piccole pagine del libretto di appunti. Ogni foglietto due date. Ogni data una annotazione. Ne stralciamo qualcuna.
14 Giugno. - Finalmente domani si parte per la Russia. E' finita colla vita senza scopo!
23 Giugno. - Che viaggio lungo!... Quanto è lungo il viaggio per andare a compiere il nostro dovere!
25 Giugno. - Siamo arrivati. Ci son voluti quasi dodici giorni di treno per sentire le cannonate!
8 Luglio. - Pazzo di gioia! Domani si va in linea...
27 Luglio. - Che barba la vita di trincea!... Però preferisco la mia buca ad una villetta in Italia. Se non si combatte si ha almeno la soddisfazione di soffrire per la Patria.
10 Settembre. - Che festa! Vengono i rossi e noi li rigettiamo nel Don. Mamma, quanto sono contento!
11 Settembre. - Sono ferito ad un braccio. Anche questa è una soddisfazione che tutti non possono avere!
Poi pagine bianche. Tutte bianche, candide come l'anima dell'eroe. Sfogliammo ancora il libretto e bevemmo a quella fonte di puro entusiasmo tante e tante stille di passione patria. Poi non sapemmo contenerci e domandammo all'ufficiale del Fante: "Hai detto che manderai il diario alla mamma?... Permetti?"
Traemmo la stilografica e, con mano malferma e nella parte ancor per metà coperta dai caratteri del caduto, sotto alla data del 12 settembre, scrivemmo: Caduto per la Patria. Siate benedetta, mamma sua!

Dino Corsi

Il Telegrafo del 14 novembre 1942
Colloqui con Siena (Se Silvio Gigli permette... )

Fronte, novembre
Il "Telegrafo" ci ha portata la notizia che Silvio Gigli è militare. Ed allora ci siamo sentiti forti, erculei, titanici e ci siamo detti: Ecco il momento!
Da tempo avevamo il desiderio di parlare con te, Siena nostra; il nostro animo conteneva a stento tante domande e bramava risposte; ma eravamo chiusi nella ferrea botte del formalismo giornalistico e non potevamo, Siena, interloquire in tua compagnia, perchè un colega dalla "grande firma" ci aveva preceduti e quindi preclusi alla tua confidenza. Ma oggi le cose sono cambiate.
Silvio Gigli è soldato. Anche lui, come cento, mille, milioni di italiani ha, e siamo convinti che meriti, la soddisfazione grande di indossare il grigio-verde e servire coi fatti la Patria adorata. Essendo quindi dei nostri, noi lo vediamo non più sotto l'aspetto dell'autorevole concittadino che ha fatto strada, ma semplicemente nel sembiante del "soldataccio" imbacuccato nell'uniforme, alle prese con un qualsiasi caporale che sa far scattare i suoi uomini, intento a nettare la gavetta, dopo aver consumato il nostro minestrone, e tutto preso da quelli che sono gli inevitabili inconvenienti che la vita militare sa riservare ai novizi. E, vedendolo così come lo vediamo, dimentichiamo il "cav.", il "regista della radio" e la "grande firma", e lo trattiamo com'è uso trattarsi da soldati: senza eccessivi riguardi; e, vecchi ormai di "naia", diamo alla recluta una bella fregatura. Interloquiamo con Siena anche noi. E perchè noi no? Perchè non potremmo far noi ciò che fa o faceva, non Silvio Gigli, ma il compagno d'armi Gigli?
Iniziamo i nostri colloqui, che non avranno la regolarità e l'interesse degli "asterischi della domenica", ma che ci permetteranno comunque di rivolgerci di tanto in tanto a te, Siena di tutti i senesi, e domandarti e chiederti le risposte, che tu ci darai, sempre, in un modo o nell'altro - magari in sogno -, giacchè la tua gentilezza è per noi sicurtà di non interloquire invano. E ti parleremo, città del nostro continuo pensiero, non per noi soltanto, ma anche, e principalmente, per tutti i tuoi figli, che su tutti i fronti di guerra onorano Te nell'Italia.


***



E' festa. Diciamo sia domenica. (Quassù è festa ogni qualvolta i rossi si fanno vivi, dandoci possibilità di menare le mani. Stamani, all'alba, son venuti. Li abbiamo accolti come meritavano, barcocchiati, che sarebbe un piacere a raccontarsi, e ricacciati al di là del Don. Poco fa una pattuglia è uscita a contare i morti nemici rimasti davanti alle nostre linee. E avrà un bel contare! Perciò oggi è festa. Capisci, vecchia Siena?). Dunque siamo d'accordo. E' festa. E diciamo sia domenica.
Noi siamo con te; o meglio: tu sei con noi. La tua anima è scesa dall'alto della Torre, ha abbandonato il bronzeo asilo del campanone e ci è compagna nel nostro fantasioso peregrinre in città, tra piazze e vicoli, nei giardini e all'ombra dei tuoi palazzi. Noi ti parliamo: tu ascolti e rispondi. Vero che ascolti? Vero che rispondi?
E' festa. Tra poco sarà mezzogiorno. Noi transitiamo per il Corso. Ammiriamo la grazia di Dio che passa. In Piazza Tolomei è un via vai di figliole che scendono verso Provenzano. Strano, però! Strano che vanno sole. A crocchi, è vero, cingettanti come nugoli di pispoli, radiose e belle, ma sole. Perchè? Perchè tanto sole le "citte" di Siena, le tue "citte"?
Tu rispondi. E sei maligna. Dici: vanno a Messa le ragazze, come ieri, come sempre. Sembrano sole, ma non lo sono. Sotto le già grevi vesti autunnali, sù in alto, i cuoricini hanno compagnia. Vanno a Messa le "citte", sembran sole ed invece hanno a fianco il ragazzo che già le accompagnò, in altre giornate di festa, giù per il vicolo del Moro e le ricondusse, poi, dalla luce suggestiva del Tempio a quella splendente della vita. Il ragazzo, magari, è lontano... Tra le sabbie del deserto africano, su pei monti in Balcania, con voi tra le prime nevi delle steppe, sù in alto nei cieli dominati dalle aquile azzurre, sopra a sotto tutti i mari dove l'audacia vince...Tu dici così, e non saresti maligna. Ma lo sei quando aggiungi: Però, qualcuna, troppe forse, non sanno resistere all'attesa, non sanno accontentarsi della compagnia ideale dei "citti" lontano e, soldati per soldati, ci sono tanti fanti, bersaglieri, carristi, avieri a Siena... Vedi che sei maligna? Perchè, non per noi che ormai siam vecchi, ma per mille ragazzi sognanti in trincea le bambine del cuore, vuoi dire la verità? Non lo sai che, in fatto di donne, e di donne giovani in special modo, è bene sempre chiudere gli occhi e far finta di niente? Eppure sei vecchia, Siena, e queste cose dovresti saperle!
***



Ci fermiamo alla Croce del Travaglio. Aspetteremo un pò e poi andremo dal "Galgani" a prendere l'aperitivo, la "bomba", come la sa fare Armando quando è in vena. Aspettando guarderemo chi passa e penseremo a chi non passa.
Sono uscite dalla Chiesa, la Messa è finita. Anzi, son terminate le Messe di mezzogiorno: a Provenzano, a San Martino, in Duomo. Dalle tre vie principali affluiscono al centro le ragazze. Vengono dai Quattro Cantoni, da Banchi di Sopra e da Banchi di Sotto. Portano un lieve profumo di incenso nei capelli, sono più belle del solito. Noi le guardiamo nel passare, le ascoltiamo nel sommesso cicalare; e, di tanto in tanto, tu, anima di Siena nostra guida, ce ne accenni una, che si estranea dalla folla e porta sul volto e sugli occhi un segno di dolore, e ci dici: Era fidanzata con Mario, o con Gino, o con Carlo... quello che cadde a Tobruk, o a Sinj, o a Marizai, o a Voroscilofgrad... Non sei più maligna, Siena, sei tanto buona ora!
E passano anche dei giovani. Qualcuno zoppica o porta un braccio al collo, altri nascondono dietro una benda nera la pupilla orbata di luce o hanno sul volto segni di non lontana sofferenza. Tu, allora, ti ingrandisci nell'orgoglio, Siena, e mormori: Questi sono i miei figli più cari. Dopo il fronte e l'ospedale son tornati a me ansiosi di lasciarmi ancora e tornare a soffrire per vincere.
Noi ci sentiamo piccini, tanto piccini, e vorremmo dare un pò del nostro sangue per divenire tuoi figli più cari. Pensiamo a ciò quando tu ci richiami alla realtà delle cose, domandandoci: Chi manca? Cosa manca?
Volgiamo gli sguardi intorno e sù e giù, verso la Costarella, il Chiasso Largo e Piazza Tolomei, e, da noi stessi torniamo a domandarci: Chi manca? Cosa manca?
Una donna giovane, in gramaglie, conducente per mano un sorriso di bambina, ci dà la risposta.
Vero, Siena, che manca Rodolfo? In questo meriggio festivo, qui alla Croce del Travaglio mancano i due metri di altezza di Rodolfo Nigi? Lui era sempre qui a quest'ora. Semplice, modesto, bravo; era qui a parlare d'Italia e di Fascismo, a sognare la gloria. Guarda Siena, guarda le gramaglie della vedova che passa!... Vedi come sono illuminate dall'azzurro segno del valore?... Cosa rispondi vecchia Siena?
E lei risponde. Questa volta trema, la voce della città dei santi e degli eroi. Trema d'orgoglio e commozione; dice: E non è azzurro il mio cielo? E non è fulgente la veste umile che ho indossata per esser degna degli umili grandi miei figli? Vedete, io ho riposti i mille colori delle seriche bandiere, ho fatto tacere i tamburi, la mia voce non è più quella di "Sunto" ma quella di una madre che trepida, soffre e gioisce... Rodolfo, il Nigi, è uno dei figli pei quali ho trepidato, sofferto e gioisco... E' forse il migliore di tutti. Ma tornate ancora, venite ancora a parlarmi, sarò contenta. Tante cose devo ancora mostrare a voi che oggi vivete lontano, tante cose devo dirvi nei nostri colloqui: cose belle e cose brutte. Tornate e parleremo ancora... Poi Siena è scomparsa; e siamo rimasti soli.
La Croce del Travaglio deserta, non un'anima per la strada. Abbiam chiusi e riaperti gli occhi: una buca nel terreno e un riparo di sacchetti di sabbia a terra. Era finito il primo colloquio con Siena, riprendeva quello con la trincea.

Dino Corsi

Il Telegrafo del 30 ottobre 1942
La scuola russa: prigione dello spirito

Fronte Russo, ottobre
Una delle tante decantaterealizzazioni del regime bolscevico, il fatto che ha dato fiato per i più o meno intonati squilli della propaganda moscovita, l'opera che più e meglio di ogni altra dovrebbe dire ai proletari di tutto il mondo la paterna, affettuosa, attenzione dei governanti di Mosca, la prova, infine, del prodigarsi dei capi nell'intento di elevare la masse è indubbiamente il grande, colossale addirittura, lavoro compiuto nella lotta contro l'analfabetismo. Lotta portata a termine col raggiungimento di tutte le mète ed il conseguimento di tutti i risultati voluti.
Nell'U.R.S.S. o almeno in quella parte della Russia che sino ad oggi ci è stato possibile conoscere, l'istruzione elementare ha assunto un carattere totalitario nella sua obbligatorietà. Si può affermare che il cento per cento dei giovani russi, quelli delle ultime generazioni, è immune dalla piaga dell'analfabetismo, combattuto e vinto, nelle città e nelle campagne, dall'autoritario volere e dal cospicuo impiego di mezzi profusi a piene mani dallo zar rosso.
Limitando per oggi le nostre indagini e constatazioni al vasto campo della cultura elementare, e tralasciando quello dell'istruzione media, assai ristretto, e l'altro ristrettissimo degli studi superiori, non si può non riconoscere la davvero miracolosa portata della vasta realizzazione culturale.
la scuola in Russia ha, si può dire, preso il posto della Chiesa. Non v'è piccolo paese ove manchi il sontuoso edificio scolastico; ogni minuscola borgata rurale ha la sua scuola elementare. Ci diceva tempo fa un vecchio sacerdore ortodosso di una provincia ucraina: "I giovani, bolscevichi o no, guardano al maestro come i loro padri e i loro nonni guardavano a noi, ai preti, ai ministri di Dio. E ciò avviene perchè queste creature, fuorviate dalla via diritta, vedono nell'insegnate il ministro della negatrice potenza, che nei loro cuori e nelle loro menti ha soppiantata la Divinità".
Si potrebbe essere portati a pensare, basandosi sull'esteriorità delle cose, che il bolscevismo è realmente pervenuto ad elevare il livello culturale delle masse in virtù della lotta svolta vittoriosamente dalla scuola contro l'analfabetismo. E, quindi, dovremmo al regime comunista almeno questo doveroso riconoscimento.
Ma addentrandosi nella quistione, esaminando gli effetti conseguiti da un ventennio di istruzione per il popolo, toccando con mano le cose apparentemente perfette, la conclusione è assai diversa. Questa: l'ignoranza delle masse è aumentata proporzionalmente all'accrescersi della cultura delle stesse. E potrebbe anche essere, la conclusione. Imparando a leggere ed a scrivere l'operaio ed il contadino russi sono pervenuti ad un grado di ignoranza mai raggiunto da altri popoli. Il che, in definiva, è pressochè uguale.
E cerchiamo ora di dimostrare la logica di questi apparenti paradossi.
Se un fanciullo, nato e cresciuto in un ambiente sano, e porivato del pane del sapere e negato alla scuola, questi diverrà uomo privo di istruzione, si, ma comunque avrà imparato dalla vita alcune di quelle nozioni utili a tutti gli esseri di questa terra, ed avrà potuto, spremendo le proprie meningi, supplire, in parte sia pur limitata, alla mancanza di istruzione. E chiamerà panme il pane, e saprà perchè nascono i frutti, perchè si muovono le macchine, come si chiama il suo paese, dove comincia e dove finisce la sua Patria. E non saprà magari, e non si sforzerà a sapere quando e da chi fu inventato il pantelegrafo, chi era Demostene, cosa avvenne durante le Idi di Marzo, chi vinse a Trafalgar ed in quale parte del mondo si trovi il Kilimangiaro. Rimarrà ignorante, d'accordo, ma lo coscienza della propria ignoranza lo porterà ad agire come se non lo fosse.
Se, al contrario, lo stesso fanciullo frrequentando una scuola, imparerà, tra l'altro, che Montieri è la capitale della Cina, che i leoni sono stumenti a fiato ed il pane un cavallo da corsa, se, attraverso una istruzione impartita con metodo e cura, si riuscirà a convincere il giovane della forma cilindrica della terra, dell'origine tellurica delle variazioni lunari e di altre simili sciempiaggini, noi avremo col tempo un uomo straordinariamente ignorante quanto convintissimo di non esserlo, perchè ha studiato, perchè sa leggere e scrivere.
La goiventù russa è un pò come il fanciullo del nostro secondo corso. La scuola bolscevica, insegnando l'alfabeto, ha fatto sì che il popolo restasse ignorante, s'incancrenisse anzi nella propria ignoranzael mentre credeva di attingere alla fonte del sapere. Strappando il velo di "sociale assistenza e fraterno prodigarsi per il bene degi umili" che copre il criminoso edificio della scuila staliniana, si mette a nudo l'anima della scuola stessa. Anima diabolica in un corpo di angelo.
Mosca si è fatta un'arena potentissima dell'istruzione elementare e se ne è servita per:
1) Condurre tra i giovani la sua spietata campagna antireligiosa;
2) creare il mito della civiltà bolscevica;
3) diffondere l'assurdo della semi-barbarie di Roma;
4) esaltare le inesistenti conquiste del tanto più inesistente genio russo;
5) riformare la carta geografica del mondo a proprio uso e consumo.
E veniamo ai fatti. Dimostriamo, cioè, la logicità dei paradossi sopra annunziati. La assoluta negazione di ogni Divinità e potenza soprannaturale, che non siano il credo di Lenin o la persona di Stalin, è già di per se stessa una dimostrazione del nostro asserto. Negando l'esistenza di Dio, e convincendo i fanciulli a tanta enormità, si condannano i medesimi - e, si noti, attraverso una scrupolosa istruzione che dovrebbe elevare il di loro sapere - alla più terribile forma di ignoranza, quella dello spirito. L'ateo - analfabeta della religione - ha il solo difetto di non credere in Dio; il giovane russo ha il solo difetto di non credere nel Giusto e quello di peccare di ignoranza credendo nel falso.
La civiltà bolscevica, la sola civiltà che gli uomini avrebbero conosciuta (fortunatamente gli uomini sono... uomini russi), è presentata come il primo fattore civilizzatore del Mondo. La scuola russa - quella del Popolo, inteso - nega ogni altra forma di civiltà moderna ed antica. La asiatica, l'assira, la egiziana, la babilonese, la greca, la romana non esisterono, non furono di questa terra. Lo scolaro, sempre diligente, ascolta ed apprende, studia ed assimila. E domani, fatto adulto, crederà nella sua istruzione e quindi nella sola civiltà bolscevica. Ignorante, più di chi non sapendo tace, affermerà, convinto, la sua errata credenza.
Roma, e per questa e con questa l'Italia, è nei testi scolastici russi espressione di semi-barbarie e ricetto di uominin incivili che, sordi alla voce del progresso, si sono stabilizzati in una forma di vita primordiale e vegetano intorno ai ruderi di monumenti eretti nei secoli che furono sotto l'impulso dell'esempio che veniva, manco a dirlo, da Oriente. Fornito di tutto questo sapere, il ragazzo russo può andare per le vie del mondoa far la figura dell'ignorantone, assai più di quanto non lo fece il pastorello delle montagne d'Abruzzo, semplice e illetterato, che un giorno, alla nostra domanda: "Sai cos'è Roma?", rispondeva: "Roma è una città grande e bella dove stanno il Papa e il Re".
Ma il settore ove più si è sbizzarrita la fantasia della didattica comunista è quello delle supposte conquiste, scoperte ed invenzioni del non mai troppo celebrato geio russo. Un operaio di Stalino, specializzato in costruzioni radiofoniche vi dirà, come a noi un paio di mesi or sono, che la radio è scoperta di un ingegnere georgiano; e così affermeranno tutti coloro che sono usciti dalle scuole del popolo, ove si insegna che fu un operaio di Cazan ad inventare il motore a scoppio, una donna di Astracan a costruire la prima bicicletta, un medico di Cottas a scoprire il bacillo del colera, una ragazza di Viasmo ad ideare la macchina da cucire, un ufficiale dello Zar a raggiungere per primo il Polo, e russi, soltanto russi, furono i primi navigatori, i primissimi aeronauti, i violatori degli abissi sottomarini, e soltanto dovute al genio russo, esclusivamente a questo, tutte le invenzioni e scoperte, dalla pila elettrica all'apriscatole automatico e dalla polvere da sparo a quella insetticida. Infarcito di tanto sapere, l'alunno lascia la scuola ed affronta la vita. Ignorante diplomato a pieni voti.
Anche la stessa geografia è divenuta materia duttile tra le sottili e diaboliche mani dei mestatori moscoviti. Lungo sarebbe tentar soltanto di riassumere le iperboli riportati da testi ed atlanti geografici in uso nelle scuole elementari russe. Un giorno, forse, per diletto dei lettori pubblicheremo alcune di queste pagine di questi "libri di stato" ove continenti e stati, mari e fiumi sono riformati e spostati qua e là per il mondo ad uso e consumo della propaganda bolscevica. Per oggi ci servono due soli esempi tratti dalla vita di gente che si ritiene istruita. Or non è molto un sergente russo, caduto nelle nostre mani, si meravigliava di trovarsi ancora in territorio sovietico perchè, sono parole sue. "...io credevo al di là del Don ci fosse la Germania e a cento chilometri Berlino. L'ho imparato a scuola". Ed una ragazza, giovane intelligente ed a modo suo assai istruita, ci diceva la settimana scorsa: "Voi avete tanta certezza di vincere, ma non pensate che tra un mese saranno qua due milioni di inglesi?". Ed alla nostra obbiezione del come sarebbero giunti sino a noi i biondi paladini, rispondeva candidamente: "In treno. E' tanto vicina l'Inghilterra!" E crediamo non aver altro da aggiungere.
Conclusione. Attraverso la scuola il comunismo ha vinto una delle sue più importanti battaglie. Fedele ai suoi principi di oppressione in carnascialesco costume di libertà, Stalin ha aperte al popolo le porte degli edifici scolastici ed ha poi richiuse queste porte, trasformando le aule in orribili prigioni dello spirito. Oggi le nostre armi infrangono le catene e fanno largo alla luce della verità.

Dino Corsi

Il Telegrafo del 23 ottobre 1942
Senesi combattenti in Russia

Fronte Russo, ottobre
Era notte profonda. La luna nel suo primo quarto ci aveva regalato una fettuccia di tenue luce, che era apparsa nel tardo pomeriggio e scomparsa tra i bagliori rossastri del tramonto. Oscurità completa sulla steppa sterminata, tra le alte erbe mosse da una leggera brezza, e poste sul cammino a rendere ancor più difficile il nostro andar di notte.
Eravamo diretti ad un caposaldo avanzato sul Don. Da quasi un'ora si procedeva nell'oscurità trainando a braccia i cannoncini anticarro. Gli autocarri ci avevano condotti sino a sei chilometri dalla linea del fuoco e siu erano fermati, impossibilitati a procedere a fari spenti lungo la scassata pista ed attraverso i campi erbosi. Silenzio assoluto nella colonna in marcia. Gli uomini, ansanti nello sforzo richiesto dal traino dei pezzi sul terreno, che lentamente ma continuamente saliva, non avevano voglia, nè modo, nè tempo di parlare. Un breve alt, la sosta necessaria per riprender fiato, per riscandare coll'alito caldo le dita che incominciavano a risentire il rigido effetto della brezza ottobrina e per riconoscere il terreno davanti a noi. Una voce sussurrò: "Almeno si potesse fumare..." Imperiosa, quella del comandante, rispose: "Silenzio! E avanti".
Ancora poche centinaia di metri e nella notta risuonò l'interrogativo di una vedetta:
- Chi va là? - Truppa in marcia, fu risposto
- Altolà!, intimò la sentinella, farsi riconoscere.
Fu sussurrata la parola d'ordine: il nome di una città dalla "ci" iniziale; il fante - che si trattava di un fante della "Ravenna" - rispose colla controparola: un nome di uomo ancora dalla "ci" iniziale. Udimmo chiaramente la risposta; e dal modo con cui fu pronunciata la consonante, che per i senesi e nutrimento della parola, capimmo subito che la vedetta era di casa nostra; se non proprio di Siena, al massimo dello Stellino, della Costafabbri o dei Due Ponti. E, passando vicini alla sentinella, chiedemmo, certi di aver risposta affermativa:
- Sei di Siena?
- Anche a occhio! esclamò il fante.
- Di dove?
- Della 'hiocciola. Sto al pozzo di San Marco. E tu di che contrada sei? Proprio così ci chiese: "Di che contrda sei?", perchè anch'egli aveva riconosciuto il senese di primo acchito.
- Io so' del Nicchio. Sto vicino alla 'hiesa de' Pispini.
- Dov'andate?
- A quota X... E' lontano?
- Macchè! Siete bell'e arrivati. C'è la mi' 'ompagnia là. Fra dieci minuti smonto. Ci si vede lassù. Te sei coll'anticarro dei battaglioni "M", vero?
- Si.
- Io so' al seondo plotone. Vieni a cercarmi...o sennò vengo io. Ce l'hai da fumare? ... Si? ... Benone, Dio bonino! Io c'ho un agvettino di cognacche ... mi so' arrangiato stamani quando so' di 'omandata alla spesa: al magazzino c'era un caporale di fori porta Ovile, e con lui qualcosa si sgrana sempre...Addio a poi.
Ci rivedemmo dopo un'oretta. Il fante di San Marco venne a trovarmi nella trincerotta che avevamo scavato vicino al nostro pezzo; portò il "cognacche", noi tirammo fuori un pacchetto di "nazionali" e fino all'alba, senza nemmeno sentire il bisogno di dormire, rimanemmo in conversazione. Argomento unico: Siena. Entrambi avevamo tante cose da dirci. Tutte quelle piccole cose che gli altri, i non nati all'ombra del Mangia, non comprendono e non compenderanno mai.
Parlammo, s'intende, di Palio, delle "citte", di amici e conoscenti comuni, bollammo qualche cronico imboscato, rievocammo le mostre dei vini, con tanta nostalgia perchè in Russia la vite non alligna, e ci commuovemmo un tantino quando il discorso cadde sulle bellezze della città dei sogni, quando le labbra incominciarono a mormorare come un una prece di adorazione: "Ma quanto sarà bello il Domo... tutto bianco e nero... E la Torre?... La torre che sembra l'anima di Siena salente al cielo... Ma non parliamo della Fortezza, a quest'ora di notte: pare il paradiso, da dove guardano le 'ose più belle del mondo: Siena, S. Domenio, la 'ostaccia, l'Amiata, San Giovanni... e tutte le 'olline... e le 'ose... Un ne parliamo più! Se no si sta troppo male..."
Era la prima volta che incontravamo un senese, che parlavamo con un senese, senza tener conto, s'intende, dei pochi comprovinciali che ci sono continuamente vicini perchè appartenenti ai nostri battaglioni. E proprio quella notte si maturò in noi il proponimento di dedicare una delle nostre ore di libertà alla compilazione di un "pezzo" riservato esclusivamente ai senesi combattenti in Russia. Ed eccoci al lavoro.
Quanti sono i figli di Siena operanti al Fronte Russo? Chissà. Forse cento, forse più. Sfuggono ad un preciso calcolo perchè suddivisi nei vari reparti e sparsi un pò ovunque nel settore della grande ansa del Don.br> Un nucleo, forse più numeroso, è formato dagli autieri. Di alcuni di questi il nostro giornale pubblicò tempo fa una bella fotografia ripresa a Voronesch, sulla base di quello che fu il monumento a Stalin. Gli autieri, contrariamente a quanto il profano di cose di guerra può esser portato a pensare ed a credere, sono in Russia autentici combattenti in primissima linea. Sono loro che alimentano le arterie del fronte e danno vita a tutto il corpo guerriero; sono loro, instancabili, insonni, legati alla macchina ed alla pista coperta di polvere, o di fango e ben presto di neve, che fanno giungere sin sulle linee più avanzate gli alimenti per i corpi e per le armi: loro che viaggiano sempre, anche quando la strada è battuta dal fuoco nemicoe che molto spesso si spingono sul terreno della battaglia per raccogliere e portare in salvo i feriti coi loro autocarri, o per impugnare il moschetto, fanti fra i fanti.
Tra i vari autoreparti quelli ove prestano servizio i senesi sono numerosi e numerosissime le macchine condotte da gente della Balzana. Ragazzi allegri, pieni di salute, esuberanti di spirito, i nostri concittadini e comprovinciali si distinguono, si fanno amare e stimare da tutti.
Ci scriveva giorni fa il sergente maggiore T...: "...ma la più grande soddisfazione, oltre a quella che deriva dal compiere con fede e volontà il nostro dovere, deriva dal fatto che tutti, tutti indistintamente, abbiamo una salute di acciaio e della stima che noi senesi godiamo da parte di tutti i superiori e camerati. In definitiva, si può affermare che qui, al X... autoreparto, Siena spopola!".
Ed hanno un sistema speciale per farsi riconoscere. Il caporale A..., quello che vedemmo un giorno di sfuggita per un solo istante, e che ci ammonì di non comprare le "sarage guisciole" perchè "fannò veni' lo storcibudello", ci ha indicato per iscritto il modo migliore per individuare le macchine condotte dai senesi: "...e quando appiccicata al parabrezza vedi una cartolina colla Torre o col Duomo, o il figurino o la comparsa di una contrada, oppure in una parte qualsiasi della macchina ci è scritto Bruco, o Oca, o Istrice, puoi aprire lo sportello a colpo sicuro: in cabina c'è uno di Siena".
Ma non sono soltanto nelle cabine degli autocarri, i senesi. Molti prestano servizio alla sussistenza, particolarmente nelle squadre panettieri. Sono qua ormai da sedici mesi. Hanno impastato acqua e farina in Ucraina, confezionato pagnotte a Stalino ed ora informano e sfornano lungo le sponde del Don, contenti della loro fatica, fieri del contributo che danno alla vittoria, allegri sempre e sempre col pensiero rivolto alla loro indimenticabile città. Il caporale B... , vecchio nostro amico... di palcoscenico, scriveva un giorno: "...il pane che facciamo non sarà speciale, ma ti garantisco che dentro c'è tutta la nostra buona volontà. E poi, se non siete contenti, venite voi a farlo: noi verremo a fare la guerra. Vedrai che sapremo combattere come voi, ma voi chissà cosa ci farete mangiare..." E passando dal faceto al serio, concludeva: "...noi qua si ricorda sempre Siena e puoi immaginare con quanto amore. Scrivilo sul giornale, ci farai un grande piacere, che stiamo benone, siamo contenti e desideriamo soltanto esser bravi soldati per servire la Patria e fare onore alla nostra città".
Ed eccolo accontentato il nostro caro B... E con lui tutti i panettieri e gli altri senesi della sussistenza - anche quelli che qualche volta battezzano il vino della razione - che stanno benone, sono contenti e desiderano soltanto esser bravi soldati per servire la Patria e fare onore alla nostra città.
Un paio di mesi fa, a tergo di una ricevuta di un vaglia, compilata in un ufficio di Posta Militare, leggemmo due parole di saluto. Il sergente M.M., vecchio e noto sportivo senese, ci indicava con questo mezzo la sua presenza in Russia. Gli scrivemmo per ricambiare i saluti e chiedergli carta da scrivere. Rispose inviandoci un pacco di cancelleria accompagnato da una breve lettera. A chiusura di questa un motto: "Cor Magis Tibi Sena Pandit". Ai camerati, coi quali dividemmo carta ed inchiostro, spiegammo il significato del "Cor Magis... ". Spontaneamente un legionario esclamò: "Se tutti i senesi sono come il vostro amico e come voi, mai sentenza più giusta fu scolpita sulla pietra!". E, sia detto francamente, al nostro animo di senesi questo riconoscimento fu assai gradito, perchè tornava a tutto vantaggio della città della Lupa.
Nella Divisione Celere, sia gtra i piumati del 3° e sia nel Reggimento artiglieria, ancora senesi. Ce ne dà notizia il Tenente C...: "Comando una sezione e tra i serventi ho sette od otto ragazzi della Provincia, artiglieri di tempra e soldati disciplinatissimi. Essi mi ricordano il tuo paese e la tua, che è un pò anche mia, città. Per loro e per Siena ho battezzati i cannoni della sezione "Provenzano" e "Cecco": un guerriero e un poeta nostrani; due nomi che rispecchiamo tutta la eroica poesia che in questi giorni pervade gli animi dei combattenti". Il Sottotenente Z..., comandante un plotone del 3° Bersaglieri, così si è espresso recentemente in un breve suo scritto: "Che gioia, caro Corsi, a comandare questi ragazzi che sanno essere diavoli e santi. E quanto più grande gioia vedere come i nostri comprovinciali si distinguono tra tutti in tutto. Purtroppo sono pochi i senesi al 3°, ma, come si dice da noi, nella botte piccina ci sta il vino buono..."
E nelle varie divisioni di fanteria, nei reggimenti di artiglieria, nei reparti guastatori, nelle sezioni genio, tra le fila della sanità, ovunque insomma, Siena ha la sua rappresentanza di giovinezza e di cuori.
Artisti ed artigiani, professionisti ed operai, contadini ed impiegati, ricchi e poveri, usciti dall'Ateneo e dalle botteghe, venuti dalle solatie campagne e dalle vecchie contrade, discesi dalle verdi colline e risaliti dai piani delle valli, i figli di Siena, al pari di cento e mille loro fratelli operanti in Egitto e in Balcania, operano sul fronte russo ed aggiungono nuove luminose pagine al grande libro delle tradizioni guerriere ed eroiche della fiera città ghibellina, che nei secoli e da secoli continua ad insegnare "...a non piegar l'insegna".
Da nord a sud, lungo le contese sponde del grande fiume dei cosacchi, sono nei ranghi dell'Esercito della vittoria i soldati senesi.
Tutti lieti, tutti sani, tutti sereni rivolgono il loro pensiero ai cari ed alle case lontane e combattono da bravi, a nessuno secondinella dedizione e nell'offerta di se stessi alla Patria.
Vorremmo poterli citare per nome tutti, questi camerati; vorremmo poter, attraverso una serie di nomi, di fatti e di episodi, lumeggiare come merita l'opera dei concittadini e comprovinciali, ma mancano il tempo e lo spazio. Del resto ciò non ha eccessiva importanza. I nomi sono quelli dei gloriosi soldati d'Italia, i fatti e gli episodi s'inquadrano negli epici avvenimenti che ad oriente preludono il sorgere di un'alba di totale vittoria del bene sul male, dello spirito sulla materia.
Lungo le piste passano veloci gli autoreparti: e qualche macchina ha sul parabrezza una cartolina raffigurante qualcosa che Siena ricorda; lavorano i panettieri cantarellando uno stornello del Palio o una romanza campestre del senese; in un ufficio di Posta Militare un sottufficiale bolla la corrispondenza diretta al fronte e pensa, forse, al vecchio "Roburrone"; due pezzi d'artiglieria dai nomi di un guerriero e di un poeta antichi, brontolano e vomitano acciaio; una schiera di piumati centauri corre e corre alla battaglia, con in testa un tenentino che, magari, urla ai suoi bersaglieri: "Sotto regazzi, facciamo vedere chi sono i Senesi!"; e più qua e più là, dove si lavora e si combatte, dove si prodiga assistenza ai feriti e si si soffre goiiosamente per il sangue versato ieri, tante voci risuonano, in un idioma che è un canto, in un accento che è musica.
Qui, in un campo legionario, è ancora un senese; e scrive di senesi. E davanti, laggiù dietro a quella collina dall'alto della quale fa capolino il diroccato campanile di una chiesa, sono ancora i figli di Siena. Questi non scrivono. Per loro - i più buoni, i più bravi, i più nobili - qualcuno scrisse su una bianca croce: "Nato a Siena il X... X... Morto per la Patria il X... X...
Ci giunge all'orecchio la voce di un camerata di Castelnuovo Berardenga, nostro commilitone; canta una musica che infiamma e fa fremere:
"Squilli la fe' - S'armi e vince l'onore - In te dolce fiore - Siena gentil..."

Dino Corsi

Il Telegrafo del 17 ottobre 1942
Un angolo del paradiso sovietico

Fronte Russo, ottobre
F... è un piccolo villaggio rurale a pochi chilometri dal Don. Cento case, poche più o poche meno, una bianca chiesa ortodossa dal campanile diroccato. e l'interno nudo e vuoto come una grande scatola di cartone vuotata del suo contenuto, nessuna strada, ma soltanto un intersecarsi di polverosi sentieri, or stretti tra l'una e l'altra casa, or gradatamente allargantisi fino al punto di perdersi in polverosissimi spazi, che non possono chiamarsi piazze anche se di tali sembrano avere la pretesa.
Le case, eccettuate poche costruzioni, già sedi del Partito comunista, della cooperativa e degli uffici comunali, hanno di queste soltanto il nome. Si tratta in realtà di luride capanne ad un sol piano - il terreno - costruite con fango e sterco animale impastati e ridotti a mattonelle, coperte di paglia ed esternamente quanto internamente aventi le pareti scialbate da un sottile strato di calce.
Misere abitazioni di miserissima gente condannata alla schiavitù della gleba, asili che potrebbero ben chiamarsi stalle, se non si pensasse alla inopportunità di far vivere in questi tuguri degli animali, tane brulicanti di vermi e di insetti, ed offerenti il più trsiste spettacolo della miseria materiale e dell'avvilimento morale in cui erano caduti questi esseri "redenti" dalla rivoluzione d'ottobre.
Due sole stanze per ogni abitazione. Una d'ingresso che serve anche da ripostiglio, cucina e, molto spesso, da pollaio ed ovile; l'altra, la più vasta, in funzione di camera, ove in assoluta promiscuità vivono gli assai spesso numerosi componenti della famiglia. Salvo poche eccezioni, i letti e le altre suppellettili comuni a tutte le camere da letto della gente civile mancano totalmente. Pochi laceri tappeti e vecchie pelli gettati come stracci sul terreno, privo di impiantito e quindi ricetto di animali i più schifosi, costituiscono il giaciglio della quasi totalità dei contadini russi, schiavi nei secoli della loro ignoranza e della turpitudine dei governanti.
Ad entrare in queste abitazioni, ove l'aria è sempre mefitica causa la ristrettezza degli ambienti, la mancanza di ogni sia pur rudimentale impianto igienico e la sporcizia delle cose e degli esseri, si prova un senso di repulsione vivissima ed occorrono minuti di buona volontà per adattarsi a respirare un'atmosfera nauseabondo assai più di quella alitante nei "tucul" africani.
Uscirne, da queste tane, è come liberarsi da un incubo e tornare alla luce dopo avere a lungo vissuto nell'ombra.
Fuori dalle case l'aria è un'altra. E' l'aria della campagna, colla sua luce gioconda, coi suoi profumi inconfondibili, colla festa dei colori e col brio degli uccelletti, che volteggiando in squadriglie e stormi, richiamano la nostra attenzione alla immensità del cielo, tanto bello nel suo azzurro tenue, che sfuma all'orizzonte in un cilestrino evanescente.
La campagna tutt'attorno è un rigoglio di vegetazione. Orti nei pressi delle abitazioni, distese immense di girasoli, fulgenti ai raggi dell'astro di cui seguono con instancabile deviazione il roteare nella volta celeste, campi di grano e prati e boschetti, macchie verdi nel trionfo delle dorate messi.
Gli organi ccoperativi inghiottivano il frutto del lavoro e lasciavano ai produttori le briciole del lauto pasto. Briciole consistenti negli "alimenti sociali" distribuiti in misura quantomai parca.
Diremo a mo' di esempio, limitandoci al settore più importante, quello del frumento, che una famiglia di, ammettiamo, dieci persone, producente, nella zona a cui ci riferiamo, una media annua di mille quintali di grano, riceveva quale "alimento sociale" tre chilogrammi di pane al giorno. Nulla di più, assai spesso di meno.
Sottrarre prodotti alla requisizione era pressochè impossibile, stante l'azione poliziesca svolta dalle autorità sovietiche e particolarmente in virtù di una legge, efficace quanto raffinata, che mentre sanciva gravi pene - sino a quella di morte - per i sottraenti, concedeva in premio ai delatori il totale dei generi sottratti.
Basta conoscere anche solo superficialmente l'anima slava per comprendere come questa gente, portata per natura e istinto allo spionaggio ed alla persecuzione del simile, facesse della legge un perfetto strumento atto a reprimere ogni evasione.
Ciò che si è detto per il grano valeva anche per tutti gli altri innumerevoli prodotti della zona, che affluivano ai centri cooperativi per tornare poi, sotto forma di minuzie, a chi li aveva tratti dal suolo.
Relegati nei loro miseri villaggi, costretti a vivere in sordidi tuguri, vestiti di pochi stracci, permanentemente semiaffamati e privati anche del conforto della religione, i contadini hanno per decenni costituita una inesauribile miniera di muscoli, dalla quale i governanti di Mosca traevano energie per alimentare, attraverso il lavoro terriero, le acciaierie, gli altiforni e le fabbriche di armi, in attesa di trarne carne da cannone.
La Rivoluzione d'ottobre, creatrice del governo degli operai e dei contadini, aveva promesso a questi ultimi la terra. E la promessa è stata mantenuta ogni oltre aspettativa. Il "mugik" ebbe ieri la terra, sulla quale star curvo ad irrorarla di sudore; ha oggi la terra, sotto la quale dorme il sonno eterno, all'ombra della stella rossa che non da luce a nessuna delle infinite tombe dei soldati sovietici.

Dino Corsi

Il Telegrafo del 29 settembre 1942
poesia della prima linea

Fronte Russo, settembre
Da poco è calato il sole. E le ultime luci del giorno, quelle rossastre come fiammelle di un falò prossimo all'estinzione, non penetrano nel boschetto di querci e pini, che da alcune ore è sicuro ricetto alle nostre armi, agli automezzi ed agli uomini del reparto, in attesa della notte per attraversare la zona scoperta e tornare alla base dlpo aver assolto il suo compito oltre le nostre linee avanzate.
Sul groviglio dei rami carichi di ghiande, si aprono gli ombrelloni dei pini; parasole immensi il giorno, verde coltre la notte. Si va già a tentono nell'oscurità intorno alle macchine, sottovoce - che ogni rumore inutile è abolito in zona di operazione - ci si chiama, ci si conta, si ricevono e si danno gli ordini per la partenza imminente, che invece non sarà tale, giacchè, mentre gli autieri stanno per dare il colpo di manovella al motore, giunge l'ordine: la compagnia anticarro subito in linea.
La linea è là, appena dieci metri fuori dal boschetto. Davanti al verde degli alberi un tratto di pianura coltivata a grano. Qui ha mietuto la mitraglia, ha trebbiato il cannone. Agricoltori dilettanti, i mitraglieri e gli artiglieri non hanno portata a termine l'opera loro; qua e là le spighe sono ancora in piedi, a stento gli esili fili di paglia reggono il prezioso carico di grano ed inchinano verso terra, ove già giacciono spighe, spighe e spighe...E nella terra, impastata col sangue, par lievitare il pane sacro dell'eroismo.
Oltre la radura, la quota tenuta dai russi, la linea avversaria colla minacciosa quanto vana azione dei mortai e delle armi automatiche.
"La compagnia anticarro in linea" può voler significare la presenza di mezzi corazzati avversari nel settore, come può limitarsi ad un'azione ravvicinata di sbarramento di quei gioielli della tecnica che sono i nostri cannoncini da 47/32. Oppure la vigile, silente attesa di tante lunghe ore.
In religioso silenzio i pezzi vengono calati dagli automezzi, trainati a braccia oltre il limite del bosco e messi in postazione. Nell'oscurità, che la notte è ormai riuscita a disperdere le ultime luci anche ove non ha l'ausilio della vegetazione, mentre i serventi approntano le trincerette ed i ricoveri, gli uomini addetti al munizionamento scavano le fosse per le riservette dei proietti. In mezz'ora di alacre, ordinato lavoro di piccozzino e badilotto tutto è pronto all'offesa e alla difesa. Possiamo riprender fiato e guardarci intorno.
I legionari sono stati inghiottiti dal terreno. Solo le vedette seminascoste in mezzo al grano vivono ormai sulla terra; gli altri sono sotto, già avvolti nel pastrano, con per cuscino la fedele borsa tattica, contenente l'amica gavetta, le preziose bombe a mano, un pezzo di pagnotta, dieci volte sbocconcellata, e la fotografia della donna lontana. La trincea è stretta, ma tutti si sono accomodati alla meglio. E' questa la grande prerogativa del fante: dormire dove, come e quando può.
Vicinissima a noi, a destra, è la postazione di un'arma pesante; a sinistra veglia un nucleo fucilieri. Non riusciamo a prendere sonno ed attacchiamo conversazione coi camerati dell'Esercito. Sono qui da un mese. E da trenta giorni questi ragazzi passano la notte così, rintanati in un buco che talvolta è un pozzo di fango, sempre all'erta, instancabilmente pronti a far parlare le armi.
Questi ragazzi ci raccontano le loro avventure. Tutti hanno qualcosa di interessante da narrare, oguno di essi ha per un mese continuo vedutala morte, e ciò che conta, ha fregata la morte.
Ci offrono una sigaretta, la prima che vediamo da quarantotto ore. In prima linea non si può fumare, non si deve fumare, perchè il puntino di fuoco può scatenare una tempesta di fiamme. Ma coprendoci ben ben la testa col pastrano si fa una fumatina in barba agli osservatori nemici e si ha il vantaggio, a parte la noia del fumo negli occhi, di un tepore assai gradevole in queste nottate non eccessivamente estive.
Come tutte le cose, anche le chiacchiere stancano. Le palpebre si abbassano, i corpi stanchi reclamano il riposo. Si dorme. Cinque, dieci minuti, un quarto d'ora al massimo e poi la brusca sveglia fatta di raffiche di mitraglia, di scoppi laceranti e vampate di fuoco che colpiscono gli occhi assonnati.
- Dio li stramaledica! - borbotta una voce - neanche stanotte che è domenica ci fanno riposare!
Tutti in piedi: tutti alle armi. E poi l'incrociarsi delle domande e delle risposte: "Cosa avviene?". "C'è ordine di far fuoco?" ... "Una pattuglia è stata avvistata davanti al caposaldo X...", "i mitraglieri stanno lavorandoli", "loro tirano coi mortai"...Mezz'ora di allarme, trenta minuti di tensione, infine la calma.
- Buonanotte - sussurra un fante.
- Buona - fanno eco cento voci.
Per un pò nelle trincee è un bisbigliar di commenti, e quando il silenzio torna completo ad invitare al sonno vien subito rotto dal lontano caratteristico brusio degli aerei. Son due apparecchi che si avvicinano. Bombardieri russi. E' inconfondibile il rumore dei motori che parte da un minimo quasi impercettibile e cresce, scresce come se i cilindri volessero liberarsi dal loro involucro, per poi affievolirsi sino a pressochè scomparire per riprendere ancora il tormentoso crescendo.
Ora volano sulle nostre teste. Lanciano razzi. Cercano forse di individuare la posizione. Ci rassegniamo a ricevere il non gradito avviso di spezzoni e, più che possiamo, ci facciamo piccini nell'interno dei ricoveri. La testa coperta col pastrano dà un senso di sicurezza. Sciocchezze queste, è vero, ma è pur vero che è così: non vedere il pericolo par di poterlo evitare con maggiore facilità.
Gli aerei compiono giri su giri, lanciano ancora i loro lucenti esploratori, ma non si decidono a sganciare. Li sentiamo vicini - magari saranno a 5000 di quota, ma si potrebbe giurare di averli a dieci metri - sempre più vicini e pensiamo: bombe o spezzoni? qui o altrove?
Abbiamo appena formulati questi pensieri che un nuovo rumore giunge allo nostre orecchie. E' come una musica dolce che domina il discordato battere dei motori russi. Mille miglia lontana si riconoscerebbe la canzone gioiosa della nostra caccia sia diurna che notturna. Gli aerei nemici non fanno più paura: sta arrivando il guastafeste! E corre, corre l'aquilotto azzurro!
Ma dall'alto anche gli uccellacci rossi hanno udita la sinfonia per loro non gradita e virano velocemente e scompaiono nella notte. Il nostro cacciatore li insegue e si perde nella loro scia lontano oltre il Don.
Sarà mezzanotte, forse l'una, comunque qualche ora ci separa dal sorgere del sole. Ne approfittiamo per tornare nella nostra tana, vicino al pezzo, e ci avvogliamo ancora nel pastrano. Ma quant'è difficile prender sonno!
Fa quasi freddo! E quell'uggiolina in fondo allo stomaco deve essere appetito...arretrato. Stiamo appunto pensando se sia o no il caso di addentare il rimasuglio di pane che conserviamo gelosamente da ventiquattro ore, quando una voce ci fa sobbalzare: "Sveglia, sussurra la voce, sveglia; è arrivato il rancio".
Balziamo in piedi e, increduli, ripetiamo a mo' di domanda: "E' arrivato il rancio?"
"Si, ribattè il nostro interlocutore, il rancio. Volevi forse un pranzo servito a tavola?"
Saltiamo dalla tana e corriamo nel boschetto. E' arrivata una carretta e ha portato...quanta roba ha portato! Pane - tante, tante belle pagnotte, belle, bianche e golnfie come palloncini di neve, profumate di forno - carne, formaggio, cognach e sigarette...Tutta questa grazia di Dio è venuta dalla nostra base fino quassù, per noi...Pare un sogno!
Rapidamente avviene la distribuzione. Il buio pesto non impedisce il regolare svolgersi del pranzetto notturno. Per una mezz'ora si lavora di denti, poi si sorseggia il cognacchino, giunto a proposito per riscaldare un pò i corpi, e una sigaretta tanto gradita perchè inattesa e maggiormente inebriante.ù, fumata così di contrabbando, nell'intimità ristretta di dieci centimetri di spazio.
Anche i fanti hanno avuto il rancio. Caldo il loro, perchèp le cucine del Reggimento sono a poche centinaia di metri dalla linea.
Tutti sani, tutti contenti, gli animi disposti ai sogni più rosei, gli uomini tornano ad accucciarsi l'uno accanto all'altro.
In un caposaldo lontano canta la mitraglia. Forse ancora una pattuglia vagante "viene lavorata".
Noi non torniamo riposare. E' il nostro turno d'ispezione. Per un'ora e più andiamo dall'una all'altra arma, discorriamo con questo o con quel legionario di vedetta, ci intratteniamo coi nuclei di mitraglieri e di fucilieri. Il tempo passa così veloce e si giunge presto all'alba.
Rapido come cala alla sera, il sole sorge al mattino. In pochi minuti i bagliori tenui all'orizzonte par si accentuino nel disco infuocato, che va rapidamente prendendo forma e lucentezza.
Ora i primi raggi, sfiorando il margine della radura, lambiscono gli orli delle trincee ed illuminano i volti dei legionari.
Rimaniamo un pò ad ossservare le faccie composte nella sernità di un tranquillo sonno e ci sforziamo ad immaginare i sogni di ognuno. Quello, che se ne sta raggomitolato tra due cassette di munizioni, colle labbra atteggiate ad un sorriso di gioia, ci diceva ieri sera la sua trepida attesa di un figlio, del primo figlio.
Forse a quest'ora, in una lontana casa italiana, da una donna d'Italia è nata la creatura del legionario. Ed egli nel sogno la vede, quale la sua amorosa immaginazione paterna l'ha creata; e le sorride contento...
Un rombo lontano, il miagolio di un grosso calibro e lo scoppio vicino rompono la serenità del mattino.
I nostri 149 prolungati fanno la sveglia ai russi. Una batteria ha aperto il fuoco. Tutta la linea si rianima. I legionari e i fanti aprono gli occhi al sole lucente, sbadigliano, stiracchiano le membra. In tutti è la soddisfazione della nottata trascorsa abbastanza tranquillamente, in tutti la letizia per il dovere compiuto.
Noi ci sorprendiamo a riflettere che quella che da poco è svanita è la terza notte che trascorriamo senza dormire, e maggiormente ci stupiamo nel non risentire alcuna stanchezza fisica.
Alludeva forse il nostro poeta a questa poesia mai scritta della prima linea? O forse egli non conosceva l'armonia di quei versi che tutti i fanti - poeti ignoti - compongono con vena spontanea ed inestinguibile? Non lo sappiamo. Ma nella seconda ipotesi compiangeremmo il caro amico e con lui tutti i rimatori di questo mondo; perchè si può avere la zucca imbottigliata nei classici e contemporanei, si possono aver messe insieme milioni di rime, ma nel secolo che volge non si può esser realmente poetici se non si è sentita la Musa alitar poesia eroica attraverso i cento e mille canti della prima linea.
E, una volta tanto, sentiamo d'esser noi i poeti.

Dino Corsi

Il Telegrafo del 2 ottobre 1942
Azione squadrista dei Battaglioni "M" (II^ parte)

Ecco la seconda parte della corrispondenza:

Durante le ore trascorse in attesa dell'alba, confusi nelle trincerette e nei ricoveri, fanti e legionari fraternizzarono gioiosamente. Gli uni sapevano che gli altri avrebbero ricacciato il nemico al di là del Don; ed i secondi, attraverso un'esperienza maturata in due, tre e quattro guerre, comprendevano cosa avesse significato la resistenza dei fanti, che, cari, inarrivabili ragazzi, sembrava volessero farsi perdonare di non aver fatto di più. Loro che avevano fatto l'impossibile!
In questa atmosfera di reciproca comprensione, di affettuoso cameratismo, di certezza nel successo, l'attesa fu breve. Volarono le ore e da oriente venne la luce ad indicare ai legionari la via da percorrere.
Alle quattro del mattino le artiglierie di tutti i calibri iniziarono il tiro di preparazione. Una tempesta di ferro e di fuoco si scatenò sulle posizioni nemiche ad aprire i varchi per l'avanzata. Alla cinque in punto i battaglioni partirono all'offensiva.
Colla serena tranquillità dei forti i legionari balzarono oltre la linea dei nostri trinceramenti e si gettarono nella folta boscaglia entro la quale il nemico tendeva le sue insidie. Fu commovente il momento in cui i reparti di assalto passarono oltre l'estremo schieramento dei fanti. Dalle labbra dei soldati uscirono parole e frasi di augurio. Più di un legionario si sentì cingere da due braccia fraterne, baciare sulle guance e si vide ammirato da occhi lucenti di commozione.
"In bocca all'orso!" gridò una voce. Cento, mille, quelle di tutti i fanti fecero eco ed aggiunsero: "Viva la Milizia! Vincete battaglioni emme!"
Nati, come disse il Capo, in un clima di battaglia e di vittoria, i battaglioni "M" non potevano non vincere.
In due colonne convergenti verso l'unico obiettivo, i militi dalla rossa sigla mussoliniana dilagaromno nel groviglio della vegetazione e vincendo le asperità del terreno raggiunsero il margine della boscaglia. Le prime sporadiche resistenze erano state travolte nell'impeto del balzo iniziale.br> In vista del paese conteso il nemico sferrò la sua rabbiosa reazione. Mortai, armi automatiche e fucili aprirono il fuoco contro le nere formazioni. Caddero i primi legionari. Un centurione, comandante di compagnia fu colpito mentre guidava i suoi plotoni.Spirò sorridendo come a dire agli uomini la sua certezza nel successo.
Il sacrificio dei Caduti, le piaghe dei feriti, il rabbioso tentativo di resistenza furono tanti motivi di incitamento.
Incuranti del fuoco sempre più micidiale, traendo esempio e forza e ardimento dal sangue generoso che man mano arrossava la via dell'avanzata, i militi si gettarono contro le posizioni nemiche. Tutte le armi, tutte le energie, tutti i cuori furono scagliati nell'ondata distruggitrice degli assaltatori.
Brillarono al sole ormai alto le lance dei pugnali, l' "A noi!" degli eroismi della trincea e della piazza risuonò solenne e terribile sulle sponde del Don, ed oltre lo sbarramento di ferro e di fuoco passarono, insanguate ma trionfanti le schiere dei legionari. Nulla, nessuno avrebbe potuto fermarli. Nulla e nessuno li fermò.
La marea legionaria dei vivi e dei morti tutto travolse colla sua furia fatta di sacro ardimento.
Ed i rossi, duramente provati, abbandonarono il campo e fuggirono - quelli che lo poterono - oltre le acque del fiume.
Alle otto e trenta, dopo sole tre ore e mezzo di azione, il paese era in nostre mani. In saldissime mani.
Il Tricolore d'Italia si elevò al cielo a sancire il diritto della conquista. Le fiamme nere di battaglia presero il posto degli stracci rossi. Ancora una volta, tra Roma e Mosca, era l'Eterna a cantar vittoria.
E la vittoria fu cantata dai battaglioni nelle vie della conquistata piazzaforte nemica. Tutti, tutti i canti solenni della Patria, e quelli arditi, spigliati, menefreghisti della Rivoluzione echeggiarono nelle strade del villaggio, che più non costituisce una minaccia per il nostro schieramento ma è invece una sicura base di partenza per le prossime immancabili azioni offensive.
Nel pomeriggio le fanterie, portata avanti la linea nella scia della nostra avanzata, vennero a dare il cambio. Tra fanti e legionari si rinnovarono ancora le manifestazioni di cameratismo ed entusiasmo; e quando sull'imbrunire, giunti gli autocarri e riformatasi la colonna, i battaglioni si accinsero a partire, i camerati dell'Esercito gridarono quale più bel saluto agli arditi della Milizia: "Tornate presto!"
"Torneremo prestissimo, fu risposto, e per andare di là!". Un braccio teso accennò le acque del fiume che, placide e limpide, sembrano invitare ad un guado audace.
Al canto degli uomini si aggiunse quello dei motori. E la colonna si mosse nella notte.
Solo nelle macchine di testa era silenzio. Su questi autocarri, recanti le spoglie dei Caduti, sventolavano i gagliardetti dei battaglioni. E le nere fiamme ardevano del sacro fuoco che aveva consunti gli Eroi.
Come in giorni lontani oper le vie d'Italia, qua sulle sponde del Don la gioventù di Mussolini tornava dalla spedizione dopo aver disfatto un covo rosso e sostituito un tricolore al vessillo della negazione.
Gli stessi cuori di ieri, le stesse volontà, gli stessi ardimenti. E come ieri, come sempre, in testa a tutti, ideale avanguardia del sacrificio, la schiera di coloro che vivranno in eterno, come Roma, come le glorie della Patria.

Dino Corsi

Il Telegrafo del 29 settembre 1942
Azione squadrista dei Battaglioni "M" (I^ parte)

Fronte Russo, settembre
Tre settimane sono trascorse dal giorno in cui il nostro Generale, dall'alto di un autocarro ci disse la sua certezza nel successo ed espresse ai legionari la sua incondizionata fiducia. Tre settimane ricche di eventi e sature di emotività. Oltre venti giorni vissuti pericolosamente ed impiegati nella maniera migliore: combattendo.
All'estremità nord della grande ansa del Don i russi, con spiegamento di forze, tali da far comprendere la loro ambiziose mire di rivincita e riconquista di centri importanti dal lato strategico, attaccarono le nostre linee saldamente tenute - nel settore a cui ci riferiamo - da una Divisione di Fanteria.
Favoriti dal possesso di una testa di ponte, creata in una piccola ansa dominata da una quota in sua possesso, e dall'appiglio tattico offerto da un paese sito nei pressi del Don, il nemico, superiore di numero in proporzione di almeno cinque a uno, ha ripetutamente tentato lo sfondamento dello scacchiere italiano.
Per giorni e settimane, mentre i fanti di due vecchi, gloriosi reggimenti, abbarbicati al terreno, fatto di ogni cumulo di terra uno scudo, di ogni buca scavata col piccozzo una trincea e di ogni bosco un baluardo, respingevano attacchi su attacchi e nel tempo che l'artiglieria divisionale batteva senza posa i centri di rifornimento e le batterie avversarie, i battaglioni "M", costituenti la riserva volante del Corpo d'Armata con compiti speciali d'assalto, intervenivano ovunque più forte si manifestasse la pressione dei bolscevichi.
Di giorno e di notte, dalle loro improvvisate basi di pronto intervento, i legionari, sempre sul chi vive, balzavano al primo segnle, correvano agli autocarri e partivano verso la linea di fuoco. Dormire si dormiva dove, come e quando si poteva. La stanchezza fisica sembrava a tutti e per tutti cosa indegna di considerazione. Di stanchezza morale neppure da parlarne quando si tratta di uomini che hanno fatto del combattere la loro prima ragione di vita.
Trascorrevano giorni su giorni. E sempre e sempre più il nemico ripeteva i suoi attacchi. Masse di cadaveri si accumulavano davanti alle postazioni delle armi automatiche, posizioni dai rossi momentaneamente abbandonate venivano sempre riprese in furiosi attacchi alla baionetta. I giovanissimi fanti, baldi ragazzi delle ultime leve, giunti in linea dopo aver percorso oltre 1000 chilometri a piedi, nuovi alla guerra ed al pericolo, si dimostravano sempre degni delle fulgidi tradizioni della fanteria.
Il "Savoia!" di tutti gli ardimenti e l'"A noi!" legionario si confondevano nello spasimo della resistenza, nell'ebbrezza del contrattacco.
Ma occorreva finirla una buona volta. Scossi, malgrado le sanguinose perdite, non intendevano desistere dal loro tentativo. Volevano passare. E favoriti dal possesso del villaggio rivierasco immettevano ad ogni sorgere di sole nuove masse di uomini in sostituzione di quelli falciati dalla mitraglia, dilaniati dalle bombe e disfatti dalle artiglierie. Le linee italiane non cedevano e mai avrebbero ceduto. Purtuttavia si imponeva una decisione radicale: l'occupazione del paese caposaldo e punto di partenza degli attacchi avversari. E la decisione fu presa dagli Alti Comandi: uno dei due gruppi di battaglioni "M" avrebbe contrattaccato, volto in fuga i reggimenti rossi, occupato il paese e definita a nostro vantaggio la questione in sospeso.
Nessun dubbio possibile sull'esito dell'azione. Si sapeva che i legionari "M" avrebbero battuto il nemico ed occupato il villaggio. Sia pure non tutti, ma mille, o cinquecento, o cento, od un solo plotone di superstiti sarebbe in ogni modo giunto al paese per issare la bandiera d'Italia e la Fiamma della Rivoluzione fascista ala sommità del più alto edificio.
Così fu. Quasi integri nei ranghi, che pochi furono i caduti ed i feriti rispetto al risultato conseguito, i Battaglioni "M" contrattaccarono, volsero in fuga i reggimenti rossi, occuparono il villaggio e definirono a nostro favore la situazione in sospeso.
Da appena due giorni eravamo rientrati alla base, reduci dalla prima linea. La permanenza al campo aveva avuta la durata necessaria e consentiva agli uomini un paio di notti di riposo, la consumazione regolare di alcuni ranci caldi, la necessaria pulizia dei corpi e della biancheria, la lettura della posta, l'inizio di notizie a casa e tutte quelle altre faccenduole che sempre si rendono utili a termine di un più o meno lungo periodo di movimento.
Gli accampamenti e gli accantonamenti erano dominati dal silenzio della siesta pomeridiana quando il battito di un motore venne a far battere più violentemente i cuori. Il solito motociclista porta-ordini, latore di importanti novità, giunse a mettere in subbuglio il campo.
Immediatamente i legionari furono in piedi coll'intuizione tutta particolare dei vecchi combattenti, ognuno sentì l'approssimarsi del momento atteso. E prima ancora che ordini precisi venissero impartiti, più di uno si affaccendò intorno alle proprie cose, per riordinarle e prepararle alla eventuale nuova partenza.
L'ufficiale di guardia, pochi minuti dopo il giungere del motociclista, portò la conferma delle previsioni: levare il campo, prender posto sulle macchine. Tutto deve essere pronto in un quarto d'ora.
Esattamente dopo quindici minuti la colonna si mosse a rifare la strada che già conosceva l'incedere squadrista degli autocarri legionari.
Le nere fiamme di combattimento al vento, gli uomini in piedi come a far salire più in alto il loro canto di battaglia, le macchine superarono le posizioni di schieramento delle artiglierie e raggiunsero la zona estrema di sicurezza, oltre il di cui limite il nemico, porta la sua micidiale offesa approfittando di vasti territori non defilati al tiro dei mortai e delle mitraglie pesanti.
Si attese la notte. E col favore delle tenebre furono percorsi i pochi chilometri che separavano dalla linea avanzata. Le macchine, con gli zaini o con quant'altro non si profilava strettamente necessario, rimasero nella zona non battuta. Soltanto gli uomini, col fardello sempre leggero delle armi e col loro destino di gloria, si portarono avanti.
Il fronte era insolitamente tranquillo la notte dall'11 al 12 settembre. Soltanto le opposte artiglierie di grosso calibro saggiavano le forze avversarie. Di tanto in tanto il sibilo delle granate in partenza giungeva agli orecchi come una musica allegra, rotta sovente dal fragoroso dirompere dei proietti.
I fanti salutavano con affettuoso calore il giungere dei battaglioni. Questi ragazzi, che guardano ai legionari come a dei fratelli maggiori, salutano ogni nostro ritorno in linea con dimostrazioni spontanee che dicono chiaramente tutta la loro stima ed ammirazione per i "diavoli neri". Questi oscuri eroi della trincea, questi giovanotti che sanno combattere e morire col sorriso sulle labbra, che in cento contro cinquecento respingono da quasi un mese le orde bolsceviche e non di rado scattano all'assalto alla baionetta, questi modesti quanto superbi soldati d'Italia, come non sanno inorgoglirsi delle loro gesta addirittura epiche, si abbandonano con quasi infantile entusiasmo all'ammirazione per le altrui imprese.

Dino Corsi

Il Telegrafo del 11 settembre 1942
Quando il buondì si vede dal mattino (II parte)

Ecco la seconda parte dell corrispondenza:

Torniamo al campo improvvisato nei pressi del pagliaio. Appena un'ora di sonno e le prime luci dell'alba, in funzione di trombettiere di servizio, ci fanno la sveglia. Lo "stàrasta" ci ha mandato la colazione: latte fresco. Sorbendo il gradito liquido pensiamo in cuor nostro di aver mal giudicato l'ometto e ci diciamo a mo' di scusa: "forse l'oscurità ci ha ingannati. Il bagliore degli occhietti era "segno" di bontà". Tanto può una tazza di latte, sorbita alle tre del mattino, sulle opinioni di un uomo.
I plotoni già inquadrati, gli uomini canticchiano in sordina, la marcia riprende. Più che camminare, si corre. E' necessario far presto, ridurre a tre le cinque ore di marcia che ci separano da B...Perciò siamo partiti al galoppo.
In novanta minuti si sono coperti dieci chilometri. Il comandante ordina l'alt...orario. Ma non proseguiamo. Siamo appena fermi che un lontano batter di motore colpisce le nostre orecchie. Poi una sottile nuvola di polvere si alza all'orizzonte sulla pista. Giunge una moto. Il portaordini.
"Rientrare subito alla base. Urge presenza del Battaglione in linea". Così dice l'ordine. Niente di più, niente di meno. Ma questo è già sufficiente per comprendere che qualcosa va maturando, "qualcosa di buono", assai di meglio di pochi partigiani, i quali, prima o poi, cadranno immancabilmente sotto il piombo delle armi italiane.
I trenta chilometri di ieri sera più i dieci di stamani fanno quaranta. Ma cosa sono quaranta, o meglio ottanta, meschinissimi chilometri quando l'ordine dice che in linea urge la presenza del battaglione? Fatta a ritroso la via sembra più breve. Nessuno lamenta stanchezza, anche se tutti grondano di sudore e molti vacillano sulle gambe malferme. Via via, chilometro dietro chilometro, passo dopo passo. Non si canta, perchè, in verità, i nostri polmoni non possono più concedersi questo lusso. Ma si cammina, si vola.
Nel tardo pomeriggio giungiamo alle nostre postazioni. Ci attendono i camerati, il rancio caldo e le macchiìne già pronte a partire. Apprendiamo che il nemico ha sferrato un furioso attacco, veniamo a conoscere che il nostro battaglione lascerà subito la tranquilla posizione per spostarsi sulla linea di fuoco in appoggio ad una divisione di fanteria già in combattimento, beviamo la pastasciutta, saltiamo suglio autocarri, accarezzaimo le nostre armi e partiamo cantando. E' tornata la voce a farci gridare la gioia per l'azione imminente!
E via, via ancora. Ancora nella notte, ma verso la luce della battaglia. Gli autocarri vanno lentamente a fari spenti, nelle cabine e sui cassoni si sonnecchia e si sogna. Lontano romba il cannone. E' una voce che chiama con maniera alla quale non si può resistere.
Viaggiamo per alcune ore sonnecchiando. E' la voce dell'autiere che ci desta "Siamo arrivati".
"Dove?" domandiamo. E non abbiamo bisogno di risposta. Ce la danno, la risposta, quei fanti affossati nelle trincee, le batterie che, alle nostre spalle, vomitano acciaio, il caratteristico ed inconfondibile andirivieni di automezzi e carriaggi.
Siamo giunti alla linea di resistenza, allo schieramento difensivo, cioè, che si stende in profondità a poche centinaia di metri o a pochi chilometri dalla zona di combattimento.
Pernottiamo sulle macchine in attesa dell'ordine di andare avanti. L'alba ci trova ancora stretti negli interni degli autocarri. Nessuno pensa a riposare, nessuno ha bisogno di riposo. Ma tutti sentiamo il bisogno di rompere l'immobilità e correre a rispondere all'invito suggestivo della mitraglia che canta e chiama.
Come, da dove, in virtù di quale miracolo non sappiamo, giunge il caffè caldo. E giunge anche, assai più gradito del caffè, l'ordine di andare in linea.
Le macchine si muovono. I motori ed i legionari fanno ora eco al canto della mitraglia. Il sole illumina la pianura, ed i girasoli in fiore sembrano sorriderci dall'alto dei loro steli. I fiori gialli attraverso i quali passa la colonna si piegano in una gentile riverenza e par vogliano indicarci un cammino.
Sostiamo. La strada è battuta dal tiro dei cannoni avversari. Qualche granata giunge a darci il suo sanguinoso saluto. Il sangue bagna la terra, ma non si perde. Alimenta le forze e gli entusiasmi. Nessuno muore perchè anche i Caduti rimangono inquadrati nei reparti. Piùche vivi, sempre presenti all'avaguardia delle nostre schiere, i colpiti restano ad indicare il sentiero della vittoria.
Qui, mentre ancora l'artiglieria rossa batte la posizione, ci raggiunge il Luogotenente Generale comandante il Raggruppamento.
Il vecchio soldato, il combattente di tutte le guerre, l'eroico squadrista, il legionari dal petto tanto azzurro che par una bandiera del "Nicchio" chiama a sè gli "M" e, dall'alto di una macchina, parla loro in termini chiari, precisi, inconfondibili. Non li incita all'azione, chè sarebbe vano ogni incitamento, non li sprona all'eroismo, chè tutti son pronti a dare prova di valore, non si perde in raccomandazioni, giacchè sa di aver davanti a sè soldati provati a tutto; il Comandante ricorda invece ai legionari che la Patria guarda ad essi come al fiore della Stirpe, che il nemico li teme come il buon credente teme il diavolo e che Lui, il Generale, è sicuro dei suoi uomini ed orgoglioso di essi. E termina invitando le camicie nere a soffocare col loro canto guerriero il rabbioso tuonar del cannone.
Sibilano i proietti, le granate piovono dall'alto, ma v'è gente che se ne frega del bombardamento e, in attesa di far udire al nemico la voce delle proprie armi, lo sfida coprendo colla voce aperta in una canzone eroica il rombare delle sue artiglierie.
Mentre i nostri camerati cantano, mentre le granate sembrano divertirsi a scoppiar sempre più vicino, noi ci affrettiamo a completare queste sconclusionate impressioni sulle più recenti ore di vita al fronte e concludiamo col ripetere il vecchio adagio: "Il buon giorno si vede dal mattino".
Infatti il mattino delle radiose giornate che siamo chiamati a vivere fu proprio...la sera dell'altro ieri quando un porta-ordini giunse al campo recando sulla sua macchina un nucleo di partigiani, un ordine di partenza, ottanta e più chilometri di marcia, due notti insonni e tutto il resto.
Ma queste cose non contano. Quello che conta è il fatto che appena le nostre batterie, che sono già entrate in azione, avranno tacitato quelle avversarie, noi ci muoveremo da qui per portarci al di là di quella collinetta, ove il nostro giungere sarà per qualcuno assai sgradito.
E' cessato il canto dei nostri camerati. E' cessata pure la pioggia di granate. Si riparte! E questa è la volta buona!

Dino Corsi