giovedì 14 febbraio 2013

RICAPITOLANDO..................

il grande aiuto e la pazienza dell'amico Francesco Manganelli ha permesso la trascrizione di queste corrispondenze.....






Le corrispondenze di Dino Corsi
Campo di addestramento "M", 1941 - 1942





http://www.97legione.siena.it/index.html

martedì 15 gennaio 2013


Corrispondenze del 3 Novembre 1937 e del 3 Dicembre 1937 per "il Telegrafo"




Il Telegrafo del 3 novembre 1937
Dal Mare Nostro a Gondar italiana

Gondar, ottobre
Un viaggio che e' stato come un sogno ci ha portati fin sulle piu' elevate altitudini dell'altopiano etiopico.
Dal Mediterraneo al Mar Rosso, attraverso lo stretto canale pulsante e fremente di vibrante italianita' merce' lo spirito dei nostri connazionali residenti sulle sponde africana ed asiatica, da Suez a Massaua, da qui all'Asmara, e poi piu', per quelle strade che ricordano un recente passato di vittoria e conquista, i legionari della "Valanga" hanno raggiunto Gondar, si sono accampati nei pressi della capitale dell'Amhara e stanno ora acclimatandosi al nuovo ambiente ove per mesi dovra' svolgersi la loro vita tutta dedicata al servizio della Patria, del Re Imperatore, del Duce ed alla grandezza e potenza dell'Impero di Roma.
Le centurie serrate nei ranghi e vibranti di fede, sono pronte ad assolvere qualunque compito. Il battaglione amalgama perfetto di ogni virtu' patriottica e militare, ha gia' dato le prime prove di compattezza e disciplina durante le prime giornate del lugo viaggio.
Tutte le camicie nere del 97.o hanno superato meravigliosamente i primi disagi e le prime fatiche, inevitabili in terra africana. E certo i militi sapranno domani dimostrarsi degni della fiducia che il Duce ebbe in loro il giorno che ordino' la mobilitazione della forte unita' volontaria senese.
Se anche le mete da raggiungere non saranno fulgide come quelle sognate il giorno della partenza da Siena, e' in tutti l'orgoglio di poter servire la Patria, di servirla bene la nostra Italia, di offrire tutto ad Essa, di darle tutto per la sua Gloria nel Mondo.
Qualunque sia il compito loro assegnato, i figli della Balzana scriveranno nella terra imperiale pagine di fede e disciplina e, se necessario, di eroismo e sacrificio.

Ultimi giorni di mare

Oltrepassato lo stretto di Suez, il Mar Rosso accoglie il piroscafo nelle sue acque insolitamente calme. La navigazione procede tranquilla sempre contrassegnata dall'allegria delle camicie nere che nulla tralasciano pur di rendere interessanti le ultime giornate di navigazione. A bordo, in tutti, e' un fervore di iniziative tendenti a rallegrare e divertire i naviganti.
Sempre primi, i legionari della "Valanga" danno seralmente spettacoli di arte varia sul ponte di poppa. I filodrammatici della "Valdelsana" si esibiscono in bozzetti, commedie e monologhi; i coristi della "Polifonica Senese" innalzano alle stelle canti su canti; ed alcuni virtuosi del violino e della chitarra deliziano l'uditorio con "a soli" e concertini.
Di sera in sera si rinnova il successo della improvvisata formazione artistica. E di sera in sera i senesi vedono aumentare a dismisura la folla degli spettatori, che non lesinano gli applausi ai bravi e volnterosi dilettanti artistici.
L'attivita' dei legionari nostri non viene esplicata soltanto sull'improvvisato palcoscenico ma si estende - usiamo un termine sportivo - in profondita' in ogni campo.
Ad iniziativa di un gruppo di volenterosi e' uscito a bordo (due giorni prima dello sbarco) un numero unico del 97^ battaglione. Il giornaletto, dal titolo "La valanga", tirato in poche copie data la poca disponibilita' di carta, e' andato letteralmente a ruba. Le quattro paginette sature di sano umorismo sono state divorate dai militi, che hanno accolto con entusiasmo la nascita del foglietto. Ed il premio piu' bello per i redattori e' stato l'augurio di tutti che "La valanga" non rimanga un numero unico, ma divenga un periodico.
I redattori hanno promesso e gia' lavorano alla compilazione del Numero Unico che tra breve andra' in ciclostile. E promettono i redattori di inviare a Siena alcune copie del loro giornale affinche' tutti i senesi possano rendersi conto di quale e' lo spirito che anima le camicie nere senesi.
Altra bella novita' a bordo e' il continuo risuonare delle prime note della "Marcia del Palio". Il "pappa-pa-pa" e' divenuto il segnale ufficiale del Battaglione. E cosi' per le adunate e per le chiamate dei servizi, prima del rituale segnale militare, la cornetta squilla in quella musica che ha la potenza di far fremere e commuovere.
E sembra che l'anima di Siena aleggi sui ponti e sulle corsie, sui casseri e nelle cabine, fin giu' nelle stive, ove la truppa e' raggiunta e scossa dalle note della marcia piu' bella.
Ed e' realmente l'anima grande e generosa della Citta' nostra che vibra nell'animo dei legionari naviganti verso le Terre Imperiali. Ognuno ha nel cuore un nome, un ricordo, un affetto; e questi nomi, questi ricordi, questi affetti, sono scritti sui caschi coloniali e sulle "bustine", nomi di donne e bambini, stemmi di contrada, Torre de Mangia, panorami della Citta' della Vergine e ogni quant'altro e' caro a noi, sono scritti e disegnati sui copricapi.
E' una gara alla frase piu' bella, al motto piu' significativo, al disegno meglio riuscito. E tutti sono bravi, tutti primeggiano. Tutti. Anche quelli che sul casco hanno scritto "volio vincere". Perche' in quella "g" mancante e' tutta la spontaneita' e la sincerita' di un entusiasmo e di una volonta' che nobilitano la creatura piu' umile.
La navigazione volge al termine. Nella notte, Massaua ci e' davanti con tutti i suoi lumi. Entriamo in porto. Ormeggiamo. Sotto di noi il "porto imperiale" pulsa di una intensa attivita'. Ed a bordo parimenti si lavora per l'imminente sbarco. Ordinatamente, i Reparti si adunano ai posti di riunione. Gli uomini - carichi del loro fardello - volgono ancora una volta gli sguardi verso il mare. Guardano lontano, fissano un punto immaginario...sognano forse. Uno squilo di tromba, un ordine secco, ed eccoci gli uomini ritornano soldati. Si sbarca.
Pochi passi traballanti sul pontile, ed eccoci in terra d'Africa. Eccoci sulla banchina del porto d'arrivo che e' per noi anche il punto di partenza e trampolino di lancio verso terre lontane, verso il dovere e verso il piu' bello dei servizi: quello che in armi, si eplica a pro della Patria.

Attendendo gli eventi

La colonna autocarrata ci ha trasportati nei pressi di Asmara. Due giorni di sosta poco lungi dal capoluogo eritreo e nuova partenza. Cinquanta autocarri trasportano il Battaglione. Velocemente le macchine procedono per le strade della rinata Etiopia. Brevi soste notturne, riposo all'addiaccio e sempre avanti per le vie tracciate con le armi e col sangue delle legioni dei conquistatori dell'Impero.
Adi Ugri, Adi Quala, Adua, Axum e giu' giu' verso la valle del Tacazze'. Il fiume, tanto conteso due anni fa ed italianissimo oggi, e' passato di su il bel ponte costruito dal Genio: si risalgono le pendici montuose dei primi colli in terra amharica. Lontano il massiccio del Semien ci e' davanti. Lo raggiungeremo, il massiccio dominato dal Ras Basciau: lo raggiungeremo e lo supereremo.
Le macchine vanno avanti rapide. Nessun incidente, ne' agli uomini ne' ai motori viene a turbare la regolarita' della marcia. I chilometri sono divorati uno dietro l'altro. Si superano monti, si guadano torrenti, si attraversano valli: si giunge a Gondar.
S.E. il Generale Pirzio Biroli porta alla camicie nere senesi il suo saluto di governatore della Regione e di vecchio soldato. Esprime il suo elogio al Comandante nostro, si dichiara contento del modo in cui il Battaglione ha saputo prender contatto con l'Africa e dice tutta la sua fiducia nei legionari senesi. Rivela la sua certezza che l'unita' senese sapra' dimostrarsi degna dell'onore di servire nell'Impero il Duce ed invita tutti a ben sperare in attesa degli eventi.
Ed i legionari della "Valanga", orgogliosi di tanta stima, gridano ancora una volta la loro promessa: "Per il Duce e col Duce, ovunque. Col moschetto e col pugnale. Col badile e col piccone per la grandezza dell'Impero Fascista".

Dino Corsi


Il Telegrafo del 3 dicembre 1937
L'inaugurazione del fortino dedicato alla memoria di Vittorio Leoncini

Gondar, novembre
L'operosa e pacifica attività dei Legionari senesi in Africa Orientale non ha tregua. Le formazioni della "Valanga" chiamate ad assolvere un compito di presidio, lavorano e si prodigano per rendersi degne dell'onore concesso di servire validamente la causa dell'Impero Fascista.
Nulla, in questo primo periodo di vita africana, è venuto a turbare la pace che regna nei nostri campi ed in tutta la zona ove il battaglione presidia ed opera.
Le voci corse - non sappiamo come - a Siena riguardo a scontri e combattimenti più o meno sanguinosi, sono false; come false sono le notizie concernenti moniri o maggiori perdite subite dall'unità senese.
Il battaglione - con vivo disappunto della grande massa delle Camicie nere - non è ancora stato chiamato alla prova del fuoco. Ciò non vuol dire, se domani la sicurezza dell'Impero lo richiedesse, che la "Valanga" non sia preparata a tuttti gli eventi ed anelante l'onore del combattimento.
Pertanto i militi assolvono con cosciente volontà il compito loro affidato. Compito di pace armata e di fecondo lavoro.
E trovano modo, le Camicie nere senesi, di rivelare ancora una volta la gentilezza del loro animo e la bontà del loro cuore rivolgendo il pensiero alla memoria di chi, precedendole sulla via del dovere, insegnò loro il cammino da percorrere per rendersi degni della nuova grandezza imperiale di Roma.
Nel nome di Vittorio Leoncini - nel nome caro del camerata amato, nel nome del fiero squadrista, nel nome di chi versò il suo sangue per la causa della Rivoluzione, nel nome dell'intrepido Legionario d'Africa che giovinezza e vita donò alla Patria - i militi senesi hanno inteso ricordare, simboleggiare ed onorare tutti i Caduti senesi di tutte le epoche squadriste e guerriere.

La commovente cerimonia

Il fortino "Vittorio Leoncini" eretto dagli uomini del primo plotone della seconda compagnia sulla cima di un colle che, ad ovest di Gondar, domina e protegge la grande arteria conducente al lago Tana, è una di quelle caratteristiche costruzioni che in Africa Orientale, rivelano comunque la innata capacità edilizia della gente nostra e lo spirito di adattamento a tutte le esigenze e la grande volontà, che supplisce alla mancanza di materiali ed attrezzi adatti, del laborioso popolo italiano.
Facente parte di tutta una linea di fortificazioni erette dal "novantasettesimo", il fortino in questione emerge e primeggia sugli altri per la cura amorosa con la quale è stato costruito.
Per settimane intere le Camicie nere hanno lavorato con passione all'erezione delle mura, delle strutture dei reticolati ed alla costruzione delle postazioni per mitragliatrici.
In tutti, dall'ufficiale comandante il plotone al più oscuro dei gregari, è stato vivo nell'animo il desiderio di ben operare per maggiormente onorare Colui al quale l'opera doveva dedicarsi.
E dopo un mese di lavoro ininterrotto, ultimata la potente costruzione difensiva, si è giunti all'inaugurazione.
Cerimonia semplice e nel contempo solenne. Semplice come lo sono e lo devono essere tutte le cerimonie improntate dallo stile inconfondibile del soldato fascista; solenne come lo sono tutti i sacri riti tendenti a ricordare e degnamente onorare chi, dal Cielo degli Eroi, vigila sulle fortune della Patria, dopo aver tanto contribuito al raggiungimento delle fortune stesse.
In armi, il plotone si è schierato sul piazzale esterno, che delimitato dal muro merlato e dalle fila di reticolati, serve da luogo di adunata della truppa.
Un "A noi!" potente, un rapido bslenare di lame d'acciaio e, fermi sul "presentat'arm", i militi hanno salutato lo scoprimento della lapide - romanamente scolpita - sulla quale, unitamente ai dati riferentesi al reparto costruttore, spicca il nome indimenticabile del camerata scomparso.
Il centurione comandante la compagnia, con voce rotta dalla commozione e con sentimento paterno, ha tratteggiata in poche significative parole la figura di Vittorio Leoncini. Ha detto delle virtù ideali e patriottiche del Caduto ed ha accennato alle glorie future, presenti e passate della causa fascista, che sotto il segno della guida del Duce, marcia sicuramente verso i più alti destini.
Ha quindi proceduto all'appello fascista; un "Presente!" unanime ha risposto all'evocazione del nome di Vittorio Leoncini, con il "saluto al Duce" si è conclusa la semplice cerimonia, che ha lasciata nei cuori dei tutti i presenti una viva traccia di commozione.
E' quasi notte quando, ancor sotto l'impressione lasciata nel nostro animo dal rito compiutosi nel pomeriggio, entriamo nella tenda dell'ufficiale comandante il plotone e il fortino, che fu, come noi, compagno d'armi ed amico dello Scomparso.
CI guardiamo negli occhi, in silenzio. Guardiamo, sempre senza parlare, una piccola fotografia di lui, che ha in tenda il posto d'onore. Ci stringiamo una mano: fortemente, da uomini, come a dirci tutto ciò che passa nelle nostre menti e fa pulsare forte i nostri cuori, e poi il tenente, quasi sottovoce, mi dice: "Pensa Corsi, se fosse qui Vittorio, se potesse vedere..."
E per un attimo abbiamo la sensazione della sua presenza; per un istante solo vediamo il caro camerata a noi davanti. Lo vediamo come lo vedemmo un giorno nella infuocata pianura di Gheraltà: curvo sotto il peso dello zaino, con gli occhi luccicanti dalla febbre ed il volto contratto dal dolore. Ma sorridente del suo sorriso d'asceta e di martire; di quel sorriso che ce lo rendeva caro ed amico.
E ci sembra che Vittorio mormori ancora: "No ragazzi, lo zaino lo porto da me: non lo lascio. Sto bene, benone...e, infine, anche se soffro, è bello soffrire così per l'Italia".


Dino Corsi


Il Telegrafo del 13 dicembre 1936
"Faccetta nera" ad occhio nudo

Gobbia (Regione Uollo), dicembre

"Faccetta nera"...prima la canzone che furoreggia, poi i romanzi, le novelle, le caramelle dissetantie chi più ne ha più ne metta. Un delirio, un fenomeno di ubriacatura generale: Faccetta nera di qui, africanella di là, schiava abissina di sopra, bella moretta di sotto...Per qualche mese - lo immaginiamo, poichè eravamo ancora, e lo siamo tuttora, tanto lontani dall'Italia - gli italiani si son dati alla pazza esaltazione della donna etiopica, cedendo, forse, al misterioso fascino che emana tutto ciò che sa di orientale e di esotico.
Oggi, fortunatamente, la verità sul gentil sesso ha cominciato a farsi strada anche in Patria; non si canta più "Faccetta nera" e si comprende quanto le donne abissine siano lontane da noi. Una lontananza addirittura insuperabile per gli italiani, specialmente per quelli che in A.O.I. possono "ad occhio nudo" vedere, apprezzare, e considerare.
E giacchè, passata ormai l'ondata di molto discutibile esotismo, non si corre il rischio di compromettere il successo di una canzone, o di sminuire il valore di tante frasi o quelle di tanti prodotti che di "faccetta nera" fecero la loro elastica pedana per il salto verso la notorietà, possiamo parlare liberamente di queste donne, più o meno nere, più o meno selvagge e, dirlo e necessarie, tutte ugualmente...poco igieniche.
E, senza immodestia, possiamo parlarne con una certa competenza. Competenza acquistata in sedici mesi di vita africana, durante i quali sono passate sotto i nostri occhi donne di ogni razza e regione: dalla dancale alle tigrine, dalle galla alle amarcihe e dalle iollo alle scioane. Quelle cioè dal volto e dal corpo coperti dei più inverosimili tatuaggi, quelle dal naso e dalle labbra deformate e straziate da pesanti anelli, infilati nella viva carne a mo' di nasiera o di "filetto", a quelle infine - la maggiornaza - avvolte negli "sciamma" che furono candidi un giorno e che oggi hanno un colore indefinibile, ma certo più nero che bianco.
Non si può disconoscere tuttavia che la Natura, sempre giusta, ha dotato queste donne di corpi perfetti e talvolta addirittura statuari. E, specialmente le tigrine e le amariche, hanno lineamenti regolari e belli, in perfetta armonia col restante delle quasi sempre bellissime persone. Ma questi pregi, ve ne sono pochi, scompariscono e vengono annullati dalla totale mancanza di femminilità e di ogni senso di pudore.
La donna etiopica non è femmina. Queso paradosso è reso possibile dalle consuetudini etiopiche che fanno della donna un essere inferiore, un completamento necessario ma non apprezzato, alla vita dell'uomo.
L'amore, così come lo intendiamo noi latini (e per intenderci, aggiungiamo, noi latini non romantici) è sconosciuto in Etiopia. L'amor, qua, è materialità, solo materialità e nient'altro. Il matrimonio è un affare ove il cuore non conta per nulla. Talvolta, ma ben raramente, i sensi possono influire sull'accoppiamento di due giovani, ma di consueto sono il numero delle pecore, la razza degli "zebù", e la qualità delle grezze pezze di lino che la donna porta in dote, decidono l'uomo alla scelta della moglie.La contrattazione - vero e proprio mercato - si svolge generalmente tra i genitori dei giovani destinati ad unirsi. Raramente lo spposo . sempre o quasi ancora ragazzo - può intromettersi nella faccenda che riguarda lui più di ogni altro; e mai è conceso alla sposa di interloquire in merito al suo futuro destino.
E così la donna, appena uscita dall'adoloscenza, è data ad un uomo che diviene per essa il padrone. Costretta, sin dai primi giorni di matrimonio, ai lavori più umili e faticosi, abituata a considerare il marito, e quindi il maschio in genere, un essere superiore, la fanciulla abissina diviene un essere socuro e umile, privo di volontà e di energia.
Tra le pareti della sordida e lurida capanna, sfiorisce la sua giovinezza. Costretta a portare a spalle pesanti fardelli, a lavorare la terra e star china ore e ore per la faticosa confezionatura della "borgutta", la giovane etiopica perde la purezza delle linee e, con il rapido volgere di pochi anni, il suo corpo di Venere fanciulla diviene quello di un essere storpio e anchilosato.
Non conosce l'amore, non sa dell'esistenza di questo sentimento, e quindi, ignara com'è, si trascura e si abbandona sino ad imbestialirsi. Lo "sciamma", niveo il giorno del matrimonio, non conoscerà mai acqua e sapone. E la donna lo indosserà, con gli altri indumenti, sino a quando i luridi stracci, cadenti a brandelli, non scopriranno almeno quattro quinti della sua persona. E così seminuda si mostrerà agli uomini; al suo ed agli altri.Il pudore, come l'amore, è ignoto ad essa.
Soltanto la maternità sembra riscegliare nella donna abissina il sopito istinto femminile. Ma ciò dura poco. Quando il marmocchio fa i suoi primi passi, la madre, fino ad allora amorevole, affettuosa ed attaccata al figlio quasi selvaggiamente, lo abbandona a sè stesso. Così, proprio così come fanno le bastie.
Questa la donna, la sposa, la madre. Vi è poi - comu ovunque nel mondo - la fanciulla che cresce e diviene donna senza essere sposa o madre. Poche in verità, ma zitelle ve ne sono anche in Africa. E queste, forse, furono le ispiratrici del poeta di "Faccetta nera".
La ragazza che non si sposa o che si sposa in età avanzata (l'età normale per il matrimonio oscilla tra i 13 ed i 15 anni) sfugge un pò alla legge comune e, fattasi donna, può anche sembrare diversa dalle altre. Una certa ricercatezza nell'abbigliamento, la tendenza a curare la persona, l'adornarsi con ninnoli e gioielli e centro altre piccole sfumature sembrano a prima vista esser segni di femminilità. Ma non lo sono. Basta avvicinarla, la donna, per convincersene. Essa, a contatto con l'uomo, perde ogni suo fascino esteriore e rivela in pieno la propria materialità e la mancanza di ogni sentimento non che bestiale.
Mai le labbra della "selaitì" si schiuderanno per una parola d'amore e mai i suoi occhi brilleranno di gioia vera. Nata e cresciuta in una tana da belve, vissuta nella più ripugnante promiscuità, l'abissina, anche la più esigente, la più raffinata, rimane quella che è: un essere dal cuore di pietra e dalla mente ottusa.
Le eccezioni sono rare. Ed è necessario varcare la soglia del "ghebì" dei capi o dei palazzetti principeschi per trovarne. Nelle classi nobili la donna, per il fatto della superiorità di razza e di origine, vive diversamente dalle "selitì". La "nizerò", la signora, ha servi e serve (e fino a ieri aveva schiavi e schiave), è, generalmente, istruita, conosce un pò gli usi europei, vive la vita della donna e sa, volondolo, essere femmina.
Ma anch'essa, anche la figlia del principe, non sfugge al destino comune. Il matrimonio le è imposto dai genitori, i quali, anzichè di pecore e di "zebù", contratteranno magari di greggi e di armenti, ma sempre faranno mercato della figlia da marito. E questa, conscia del proprio destino, chinerà la testa davanti all'autorità paterna e soffocherà l'istinto del cuore.
Il quadro sino a qui prospettato farà forse pensare ad un eccesso di pessimismo da parte di chi scrive. Ma non è così. Non è così e non è tutto qui. Ancora si può scrivere su "Faccetta nera" ed ancor si può dimostrare quanto e come le donne etiopiche siano lontane dalla nostra mentalità di italiani.
Sorvolando sulla descrizione degli ambienti dove le indigene vivono in promiscuità con gli uomini, tralasciando molte usanze e credenze femminili, che il giornale non può riportare, vogliamo solo accennare all'abbigliamento di quelle che avremmo dovuto portare a "Roma liberata" per farla poi sfilare davanti al Duce e al Re.
lo "sciamma", l'abbiamo già detto, candido un giorno, non lo sarà mai più. E come lo "sciamma" gli altri poveri e miseri stracci che rivestono le Veneri nere. Il sapone, sconosciuto prima del nostro arrivo, è oggi usato a malapena dal cinque per cento degli indigeni. E l'acqua, abbondante in tutto l'altipiano, è lavista dai nativi, i quali, sino a poco fa, anzichè darsi la briga di scavare i pozzi, raccoglievano per dissetarsi quella stagnante e marcia dei fossi e delle paludi. Figuriamoci così se potevano preoccuparsi della pulizia!
Detto ciò - il lettore avrà già compreso quali campioni di igiene siano le donne - sarebbe inutile aggiungere altro, ma questa benedetta "Faccetta nera", oltre a quello di non lavarsi o di lavarsi poco, ha un'altra bella abitudine, che sarebbe delitto no rendere noto.
La "sabaitì" dai capelli riccioluti e ribelli, si acconcia la chioma in tante piccole treccie e tiene unite le treccie con il continuo spalmare la testa di burro rancido.
Il calore discioglie il burro, che liberamente scorre giù per la faccia ed il volto. E, trattandosi di burro fermentato, oltre all'untuosità cosparge la donna di odor rancido, che unito a quello che emanano le vesti ed il corpo tutto, costringe il nazionale a serrare le narici al solo avvicinarsi di una "faccetta nera".
Con il trascorrere del tempo ci si abitua, è vero, o meglio ci siamo abituati all'odor di rancido come alle vesti da immondizzaio; ma l'abitudine è forzato adattamento, è sopportazione, è rinuncia...
E dopo sedici mesi, africanizzati anche noi ormai, si arrischia la confidenza lecita, si rivolge un complimento, si allunga la mano per una carezza...e si corre poi al più vicino torrente per lavarsi quella mano impregrnata d'odor rancido. E correndo alla purezza delle acque, si canticchia:
Non vo' sentir cantar Faccetta nera,
non voglio più toccare un'abissina,
mandate dall'Italia una bambina,
che voglio stringer forte sul mio cuor



Dino Corsi

domenica 13 gennaio 2013

Il Telegrafo del 5 dicembre 1936
Un posto vuoto in tenda

Si chiamava Massimo. Massimo Giuseppe. Era con noi da alcuni mesi; mai però, lo avevo avvicinato, gli avevo parlato. La notte del 3 ottobre '35 avevamo varcato il confine da appena ventiquattr'ore, accampiamo sulle pendici sud della collina di Zennai. Accampiamo, dopo aver predisposte le opere di difesa: quattro muriccioli con feritoie e reconto del campo.
La luna ci illumina mentre affaccendati con teli e paletti, ci costruiamo la casetta di tela. In un batter d'occhio la tenda è fatta. La "tenda Rino Daus" fa bella mostra di sè al centro del campo trincerato; e sul più alto paletto sventola la fiamma di combattimento dai colori della "Balzana". Ci accingiamo al riposo. Siamo sette senesi. La tenda è a sei veli, quindi - necessità di guerra - atta ad ospitare otto persone. Quindi, logica di guerra, un posto è vuoto, è libero.
Non ho chiuso gli occhi, che la voce del Comandante il plotone mi fa sussultare: "Corsi!"
- Comandi Signor Tenente!
- Quanti siete in tenda?
- Sette.
- Allora hai un posto vuoto?
- Signorsì.
- Prendi questo. E' Massimo: non ha dove dormire. Il tenente si allontana e l'ometto - proprio un ometto, anzi un "omino" come si dice noi a Siena - entra in tenda e ci saluta con un cordiale: "Felice sera guagliò!". Ed aggiunge: "Dove mi assetto?". A malincuore, lo confesso, mi stringo appresso ai miei due camerati, che con me dormono alla destra del paletto di centro, e rispondo. "Vieni qui, tra me e il paletto".
L' "omino" si "assetta". Accomoda alla meglio le sue cose nei 45 centimetri di spazio a lui riservato; toglie dallo zaino il maglione, chè la notte è fresca, lo indossa e si dispone a riposare. Io lo guardo. E vedo ciò che mai avevo osservato. Sul petto di Massimo Giuseppe, volontario di S. Maria Capua a Vetere, sono due file di nastrini: le decorazioni della Grande Guerra. e sul braccio destro l' "omino" porta i segni di due ferite. Sento che qualcosa di nuovo e di grande è entrato nella nostra tenda. Ogni preconcetto verso quello che fino allora avevo considerato un intruso, svanisce. Comprendo che, se anche non senese, il combattente di Vittorio veneto può essere ospitato nella tenda che s'intitola al Nome Sacro del Nostro Martire, non solo: ma che la presenza fra noi, giovani entusiasti quanto si vuole, ma sempre "cappelle" di fronte a chi ha realmente combattuto, ad un glorioso ferito della Grande Guerra, torna a tutto nostro onore. E, con fare rispettoso, mi rivolgo nuovamente all' "omino":
- Ditemi Massimo, dove siete stato ferito?
- Alla bocca - e mostra una cicatrice che gli deforma il labbro inferiore - ed alla spalla; fu sul Piave, nel '18...
- Raccontatemi, Massimo.
- Volentieri. E l'ometto, con il suo accento meridionale, colorito e pittoresco, mi narra storie di guerra, in questa prima notte della nostra guerra. Io ascolto e rivivo con lui le giornate della Grande Epopea; mi entusiasmo dei suoi entusiasmi e soffro al racconto delle sue sofferenze. Massimo si tace, la narrazione è finita. Mi chiede un sorso d'acqua. Non l'ho, nessuno ha acqua nel campo (il cuore mi stringe nel forzato rifiuto); una sigaretta: neppure. Qualcosa da mangiare. Questo si, lo posso. In fretta e furia tolgo dal tascapane alcune pannocchie di granturco. Le ho raccolte stamane appena varcato il confine e sono state il mio vitto di oggi, come lo saranno di domani. "Tenete, prendete Massimo, dico, non ho niente di meglio da offrirvi". E Massimo afferra la pannocchia dai grani d'oro, la spillucca ed inghiotte i chicchi così come sono. La fame è fame, ma io mi sento in dovere di avvertirlo: Fate piano Massimo, son indigesti...
L' "omino" mi guarda con i suoi occhioni neri spalancati e scrolla la testa come per dire: Digerisco tutto io, digerisco! Ho digerito pure le pallottole dei "cecchini"...
Ci addormentiamo: passano le ore. E d'un tratto mi sento scuotere. Il mio primo impulso è quello di prendere un'arma. Frugo fra gli zaini e domando con voce certo non troppo calma: "Che c'è? Siamo attaccati?". Ma Massimo mi tranquillizza: "Calma guagliò, calma. Sono io: me dole 'a panza..."
- Cosa?
- Mi duole la pancia.
- Lo sapevo! Ve l'avevo detto di masticarlo il granturco!
- Santo Iddio! Cosa volete che vi faccia?...Provate a mettervi supino..e buonanotte! - Mi rigiro e procuro di riprendere sonno. Ma di tanto in tanto i lamenti dell' "omino" mi fanno sussultare. Ed il ritornello continua quasi fino all'alba: "Me dole 'a panza"...

.......


Adunata al rancio! Via di corsa verso le cucine. Risuona l'allegro sbattere dei cucchiai contro le gavette, si scoprono le marmitte da campo e si inizia le distribuzione: Pastasciutta!
Massimo, lavorando a quattro palmenti, divora la sua razione di pasta al sugo. Poi, il solito, fa il giro del campo domandando a destra e a sinistra: "Chi tiene pasta a soperchio?". Riempe la gavetta e continua a divorare. Ed io a ripetergli: "Massimo, non mangiate tanto, vi farà male". Invano. COme parlare alle stelle. E poco dopo eccolo uscir fuori con l'ormai consueto ritornello: "Me dole 'a panza"

.......


Massimo è partito. Trasferito al "186.o" Battaglione, ha lasciato la tenda. Ci siamo salutati come vecchi camerati, come padre e figlio ed un cordiale abbraccio ha suggellato il nostro distacco. In tenda un posto è rimasto vuoto. Ma nessuno se ne accorge. Sono cominciate le battaglie e tempo di piantare la tenda non c'è. I teli rimangono ripiegati e l'assenza di Massimo è poco o niente notata.
.......


28 febbraio. Siamo sotto l'amba Tzellerè. Marciamo già da dieci ore e solo da pochi minuti ci siamo aperta la via tra le gole del Tembien, sbaragliando l'avanguardia dell'armata avversaria comandata da Uola cassa, quando un ordine giunge in compagnia. Il "188.o", impegnato sulla nostra destra, ha lasciato morti e feriti sul terreno.Il battaglione prosegue l'avanzata ed è necessario correre in soccorso dei compagni feriti. Corriamo. Le prime ombre della sera già scendono, quando giungiamo al torrente in secca, sul letto del quale sono adagiati morti e feriti.
Occorre far presto: gli abissini ci sono vicini. A duecento metri la R. Guardia di Finanza combatte da ore; sulla destra e sulla sinistra il nemico, fugato dalle colonne della "23 Marzo", si è spanto tra i boschi e prepara l'insidia. Un attimo di esitazione vuol significare la morte di cento o più uomini.
In fretta raccogliamo i feriti. Mi sento chiamare da una voce amica. E vedo un senese, un amico carissimo, che mi tende le braccia. Abbraccio il carissimo amico e mi consolo quando posso costatare che Liberato - questo è il suo nome - pur essendo ferito abbastanza gravemente, non corre serio pericolo. Ma, subito, dalla sua bocca, apprendo la triste notizia: "Là, sotto quel baobab, c'è Massimo. Sta male, tanto male..."
Corro verso la gigantesca pianta tropicale e lo scorgo, il mio "omino", steso a terra, in un lago di sangue.
- Massimo! Massimo!
- Tu Corsi?
- Si, io...Ma, ditemi, Massimo, dove siete ferito, cosa avete?
Mi guarda con i suoi occhioni neri più che mai spalancati e, in una smorfia di dolore, mormora. "Me dole 'a panza".
Comprendo: è ferito all'addome. E pochi istanti sono bastati a farmi comprendere che la ferita è mortale. Infatti, poco dopo, il povero Massimo spira e raggiunge in Cielo i suoi camerati del Grappa, del Piave, dell'Isonzo, e quelli pià giovani di Val Gabat e dell'Amba Aradam.

.......


Abbiamo rifatto la tenda; un posto è rimasto vuoto. Il suo.
Talvolta la notte, mi sveglio di soprassalto e tendo gli orecchi. Vorrei, ma non lo posso più, udire ancora risuonare a me vicina la voce dell'oscuro Eroe. Vorrei sentirmi ripetere, tra il sonno, dopo uno scossone che mi avesse bruscamente destato: Corsi, me dole 'a panza...

(dal mio diario di guerra)
Dino Corsi

Il Telegrafo del 5 novembre 1936
La consacrazione del cimitero di Uoldia

Uoldia, ottobre

Cimiteri di guerra, templi della gloria e del sacrificio, sono sorti un pò dappertutto sul vesto territorio del nuovo Impero ROmano; ovunque dove si combattè e si vinse, dove si lavorò senza posa, qua e là sulle ambe pietrose e sui piani sabbiosi o verdeggianti di vegetazione, nei più remoti angoli della foresta tropicale, in ogni più selvaggio e recondito sito di questo non più misterioso oriente africano, l'ammirevole, memore e riconoscente mano del Legionario e del soldato italiano ha lasciato segni imperituri di gloria a ricordo di chi, combattendo e faticando, tutto donò alla Patria, alla Fede, all'Idea.
Nei pressi del villaggio di Uoldia, tra la cerchia delle colline ridenti di vegetazione lussureggiante, a poche centinaia di metri dalla sede del Comando di Divisione, le Camicie nere della "23 Marzo", i legionari dell' "Implacabile", hanno voluto che sorgesse, sacro tra i luoghi sacri, il Cimitero per i camerati, per i fratelli caduti nel compimento dell'ultimo sforzo.
Scalpellini e scultori di Rapolano e di Carrara; cementisti di Livorno; muratori e manovali di Siena e di Pisa; fiorai di Firenze; rudi e forti portatori di Perugia, Terni, Foligno e Spoleto; faticatori di Volterra, di Poggibonsi e del Monte Amiata; artieri di Colle Val d'Elsa, di Arezzo, di Grosseto e di Montevarchi, artisti di Siena, di Firenze e della Spezia; tutti, insomma, i più genuini rappresentanti del laborioso popolo delle Regioni che "dell'Italo suol son cuore", hanno contribuito al sorgere di quel tempio di crsitiana, umana e fascista pietà, che, oggi, tra le colline di Uoldia, sta a testimoniare il sacrificio grande, immensamente grande, della nuova Stirpe Italica.
Di quella stirpe, fatta di uomini giovani ed entusiasti, che tutto offrirono - e tanti tutto diedero - alla Patria, quando il Duce chiamò a raccolta le sue Camicie Nere; quelli, tra le Camicie nere, che preferivano e preferiscono il "vivere pericolosamente", come pericolosamente vissero ieri, vivono oggi e vivranno domani se la Patria ed il Fascismo lo vorranno.

E' domenica. Forse l'ultima giornata di festa che trascorreremo a Uoldia, giacchè tra breve Legionari e Battaglioni e Reparti leveranno le tende e prenderanno la via del ritorno, verso Massaua, verso l'Italia, incontro ai cari che aspettano ed a braccia che si protendono ansiose.
Ma qualcuno rimarrà quassù. Come ad Enda Jesus, sotto il Forte Galliano; come nell'oscura gola dell'Amba Tzellerè là nell'epico Tembien; come sull'altura ridente di Gula Gul, lungo la via di Socotà; e come infine nel greto verdeggiante del torrente Hamid, anche a Uoldia, chiusi nel sacro recinto di un Cimitero di guerra, rimarranno i nostri camerati di ieri, i compagni di cinque battaglie e di tanti mesi di vita dura., gli Eroi purissimi della leggendaria epopea vissuta dai legionari della "23 Marzo", gli "implacabili" arditi della Prima Divisione, che immolatisi per la conquista dell'Impero, rimangono oggi, e rimarranno domani, in eterno scolte vigili e gloriose sulle posizioni conquistate con le loro armi e consacrate con il loro sacrificio.
Recinto da un muricciolo di pietra che ricorda un pò i trinceramenti improvvisati nei giorni belli della lotta, il Cimitero di Uoldia sorge di una collinetta dominante la vallata che porta a Dessiè. Alta e grave, una croce nera si innalza al centro del luogo sacro, domina e valle e colline circostanti e sta lì a dire alle genti quanto e quale fu il sacrificio dei Prodi. Intorno alla croce, le tombe. Dissimili nella forma, varie nell'ornamento, ma tutte uguali nel significato, i tumuli racchiudenti le spoglie di chi, dopo aver combattuto e vinto, cadde per la Redenzione e la grandezza dell'Impero. Tutte uguali ed immensamente grandi, come uguali e grandi sono quelle dei mille e mille fratelli caduti in A.O. le tombe di Uoldia!

E' la terza domenica di ottobre, ma sembra primavera quassù tra le verdi euforbie della collina. Ed il Cimitero è un prato fiorito. Fiori ovunque: sulle tombe, lungo i viali e tra le pietre del muricciolo. Fiori che stamani all'alba, in una nobile gara tra uomo e uomo, abbiamo strappato alle roccie della montagna, raccolti sui prati e scovati qua e là in mezzo ai villaggi, tra le capanne e gli orticelli degli indigeni. Fiori per i Nostri Morti, per quelli che riposano a Uoldia e per tutti quelli che dormono il loro sonno di gloria negli innumerevoli Cimiteri dell'Impero e della Madre Patria.
Intorno al Camposanto un quadrato di truppe. Il valoroso battaglione mitraglieri è qui con le sue armi pesanti; quelle armi che ieri cantarono canzoni di morte in Val Gabat, sull'Aradam e nel Tembien, sono oggi mute, ma con le loro bocche protese verso il sacro recinto, sembrano volere ora intonare un inno di gloria in onore di chi tutto donò alla Fede. Ed i baldi artiglieri del Gruppo da 65-17, stretti dappresso ai mitraglieri, guardano lontano, sull'altura che è prospiciente al Cimitero, i loro miracolosi cannoncini, come per chiedere alle armi della Vittoria - di tutte le Vittorie - una salva, tante salve, in omaggio a chi ieri voloò all'attacco, sotto la valida protezione delle Batterie e che oggi è volato in cielo, nel Cielo degli Eroi.
E vi sono i militi del "Genio", di quel Genio silente e laborioso, che tanta parte ha avuto nella conquista dell'Impero; i rudi conducenti delle salmerie divisionali, i "fedelissimi" della Benemerita ed infine la compagnia della pietà: gli arditi portaferiti, che dopo aver combattuto ed essersi coperti di gloria in tante battaglie per soccorrere i camerati colpiti, si sono prodigati, insieme a tanti compagni delle Legioni e del Genio, nella costruzione e nei lavori di abbellimento del Cimitero.
Uno squillo di tromba annuncia l'arrivo del console Piroli, Comandante interinale la Divisione, in assenza di S.E. Siciliani. La truppa si irrigidisce sull'attenti. Si presentano le armi. Ed il Comandante varca la soglia del recinto sacro. Il valoroso ufficiale si sofferma accanto alla prime tombe a capo scoperto. Il Console, il condottiero della Legione Umbra, stende il braccio destro nel saluto romano.
E lo rivediamo, il vecchio soldato di tutte le guerre così come lo vedemmo in un giorno del decorso febbraio, quando a quota 2257, Val Gabat Calaminò, salutava con il gesto imperiale i suoi militi, le sue camicie nere, i "suoi figli" caduti nel primo sanguinoso cimento della "23 Marzo". e come allora, gli occhi del "buon papà Piroli" sono bagnati di lacrime.
Don Bezzi, il nostro infaticabile Cappellano, il valoroso Sacerdote in divisa di Centurione, si appresta a celebrare il sacrificio della Santa Messa. Ancora una volta, le truppe si irrigidiscono sugli "attenti" ed il più riverente silenzio si fa intorno all'altare da campo, eretto al centro del Cimitero, aotto la grande croce. Grave e solenne, la voce del Cappellano echeggia tra le tombe infiorate a ripetere i sacri detti della Religione di Roma; e diviene, la voce del Ministro di Cristo, più solenne e mistica quando, al termine della Messa, il Prete-soldato esalta con parole commoventi il sacrificio dei fratelli caduti.
Poi l'acqua lustrale cade sulle tombe, a consacrazione di chi tutto donò alla Patria. ed all'appello fascista, fatto dal Console Prioli per tutti i caduti della "23 Marzo"la truppa risponde "Presente!". Si presentano le armi e la cerimonia ha termine. Lentamente e co ordine i reparti discendono la collina e vanno verso gli accampamenti, in silenzio.
Non si canta oggi, ma si medita mentre la commozione stringe la gola a tutti e fa lacrimare molti. Si meditano le parole di Don Bezzi, quelle parole che ci han fatto piangere:
"Tornando alle vostre case, mie camicie nere, e ricevendo l'abbraccio delle perosne amate, pensate, nella vostra gioia, al piccolo Cimitero di Uoldia; pensate a queste sacre tombe, ai santi corpi che qui dormono il loro sonno eterno e, stringedovi al cuore la mamma, la sposa e i figlioletti, pensate ad altre mamme, ad altre spose, ad altri bambini..."


Dino Corsi

Il Telegrafo del 18 ottobre 1936
La festa di Mascal

Uoldia, ottobre

Con il mascal è tornato il bel tempo; sono terminate le piogge, s'inverdiscono i prati, germogliano le piante, tornano ai pascoli le mandrie dai lieti muggiti ed i greggi dagli allegri belati, gli uomini rivivono col sorgere della primavera africana: è festa! Mascal! Mascal! Mascal! L'invocazione a Dio, alla Croce - grido di fede e di esultanza degli etiopi copti - esce fremente da milioni di bocche e rimbomba festoso e solenne tra le ambe dell'altopiano: Mascal!
Ogni anno e da secoli il 27 dicembre si festeggia in Abissinia la giornata del Mascal. Dedicata alla Croce di Cristo, la festa acquista un particolare significato perchè ricorre al termine della stagione delle grandi pioggie. E così, insieme alla Religione, le genti di confessione copta inneggiano alla primavera che sorge. In un frammisto di riti e cerimonie che ricordano i tempi del paganesimo e della primitiva idolatria, tra il delirio di una folla pazza di religione, inebriata dall'idromele, esaltata dalle "fantasie" guerriere e giubilante per il bel tempo che è tornato, il Mascal ha inizio alla mezzanotte del giorno 26 e termina a quella del 27, dopo aver culminato, a mezzogiorno, nel fantasmagorico spattacolo del fuoco sacro. Un gigantesco falò, intorno al quale si intrecciano le danze più caratteristiche, vien fatto ardere in segno di gioia. E dalle fiamme, più o meno violente, e dal cader delle ceneri dall'una o dall'altra parte, si traggono i buoni o i cattivi auspici per l'avvenire.
L'anno scorso, a Gurà,in Eritrea, assistemmo alla festa nel campo di una brigata di ascari. Era imminente l'inizio delle operazioni di guerra - tutti lo sapevamo - ed i nostri fedeli soldati indigeni, a termine di una indiavolata fantasia, vollero che il fuoco sacro ardesse per dire a chi avrebbe arriso la vittoria. Si alzarono le fiamme, si sollevarono densi nuvoloni di fumo nero ed infine, tra il salmodiare dei sacerdoti, le salve di fucileria ed il canto delle donne, l'ammasso di legname profumato, ridotto ormai ad un braciere, crollò. Crollò verso Tai-Aimi, verso il confine, verso l'Abissinia. Fu un urlo, un urlo solo: Italia! Cadendo a sud, i carboni ardenti avevano decretata la vittoria italiana. E gli ascari, le donne indigene e gli stessi sacerdoti, gridavano la loro esultanza per la profezia più bella.
Rullarono festosi i tamburi, i suonatori di "itza" e di corno trassero dai loro strumenti le melodie più soavi, i sacerdoti alzarono al cielo le Croci d'oro e di argento e gli ascari con le loro donne, improvvisarono la fantasia della vittoria. Perchè la vittoria era ormai certa. Ed essi avevano da ciò la sicurezza, dopo che il fuoco sacro aveva decretata la fine del Leone di Giuda.
Noi - i nazionali - avevamo quella bella sicurezza da mesi, da quando cioè il Duce ci ordinò di picchiar sodo, ma tuttavia, nessuno seppe rimaner impassibile di fronte alla volontà del caso ed anche noi partecipammo all'esultanza degli ascari e, pur senza danzare la fantasia, qualcuno unì la sua voce a quelle degli indigeni per gridare al cielo la sacra invocazione: Mascal! le voci italiane, in quella particolare circostanza, non furono una stonatura, perchè Mascal o Croce che dir si voglia, era sempre nel nome del simbolo cristiano, giunto fin qua da Roma, chè il fuoco sacro aveva predestinato la vittoria della Armi Italiane, Romane e Cristiane.

Vita dell'Abissinia Italiana

Oggi, a distanza di un anno, abbiamo riveduta la festa. Nuovamente sono arsi i falò e nuovamente i sacri fuochi hano formulato la profezia per l'avvenire. Le genti etiopiche, a secodo del giudizio delle fiamme, hanno qua o là gioito o sofferto. Anche sofferti perchè non sempre il fuoco arde come dovrebbe; talvolta la legna può esser bagnata, ed allora tanto fumo...e poco raccolto, pensano gli abissini.
E maledicono il destino, il diavolo e il Negus; il Negus che "cofù, cofù" (cattivo, cattivo) tolse gli uomini alla terra per mandarli a combattere e morire contro gli italiani. Ma sanno gli abissini che l'italiano è "subulo" (buono) e che mai farà mancare ai sudditi fedeli la dura per la "borghutta" e l'orzo per la birra. Questo sanno i vecchi abissini; ed hanno compreso che dove si librano le aquile di Roma l'avvenire è certo ad onta di tutti i più contrari responsi di centomila e passa fuochi sacri ardenti sull'altopiano.
Se il fuoco non arde, e le ceneri cadono a monte invece che a valle o viceversa, non conta più ormai. Perchè ci sono gli italiani e, con questi, la vita tranquilla, il lavoro redditizio, il benessere, la salute, la pace. E' festa: Mascal! Mascal! Mascal!
E' Festa! Fantasia! Ed i corpi si muovono, gli arti si divincolano e la nenia caratteristica degli etiopi accompagna le danze. Una nenia lenta, cadenzata e sempre sullo stesso motivo. Solo le parole variano. Ora per esaltare la fede, ora per inneggiare al sole, ora infine, per cantare la riconoscenza a chi queste genti devono la libertà e il bene:
"Mascal! Mascal! Mascal!
Prima Iddio, poi Mussolini,
Mascal!
Guitana (signore) Mussolini
ammazza il diavolo,
fa fuggire le fiere,
Mascal!
Ci da' l'orzo e la dura,
il lavoro e la pace,
Mascal!
Son venuti dal mare,
son discesi dal cielo,
gli ascari di Mussolini
Mascal!
Iddio li benedica,
benedica l'Italia,
Mascal!
Prima Iddio, poi Mussolini,
Mascal! Mascal! Mascal!


La traduzione dell'amariguà è libera, come liberi sono i versi improvvisati dai menestrelli "galla"; ma il significato è questo. Poche parole, semplici e mal messe, che fanno il più bel'inno innalzato da queste genti all'Italia ed a chi ne guida le sorti.
Per ventiquattr'ore abbiamo vissuto in mezzo ad una folla festante. Ed abbiamo preso parte alla festa, ora sedendo a terra nell'interno di un tucul, intorno ad una zucca secca ripiena di idromele, ora tra i tronchi delle euforbie, attorniati da un cerchio di danzatrici nere che improvvsavano per noi le più sfrenate fantasie, ed infine nella grande piazza del mercato, ove, a mezzogiorno, si è acceso il sacro fuoco del Mescal.
Dalla mezzanotte all'alba, la collina di Uoldia e la cerchia di montagne che chiudeva la regione in una morsa di roccia, sono apparse come un nuovo cielo cosparso di stelle. Dalle sommità delle ambe al fondo dei valloni ardevano i falò accesi attorno ad ogni capanna. Punti rossi, luminosi, centinaia e centinaia di stelle risplendenti, fiaccole accese in segno di festa.

Una notte senza sonno

Fino al mattino i villaggi hanno vissute ore di vita quasi orgiastica. Non v'era tucul ove non ardesse un braciere esalante un profumo di incenso; non v'era capanna ove gli indigeni, seminudi ed ebbri di fanatismo religioso quanto di bevande alcooliche, non intrecciassero danze e non improvvisassero fantasie. E nelle piazze dei villaggi risuonavano gioconde le note degli strumenti dei suonatori girovaghi, rullavano incessamente i tamburi di pelle di pleopardo, mentre, nelle vicine selve, le fiere, là ricacciate dai fuochi e dal frastuono, emettevano ruggiti, come ad accompagnamento e completamento dell'eccezionale concerto di grida, di risa, di canti e di suoni.
Alle prime luci dell'alba il delirio è sembrato calmarsi. Ma per poco. senza predenr riposo, gli abissini si sono dedicati alla preghiera. Due ore di mistico raccoglimento e poi, di nuovo, l'orgiastica e fantasiosa ebrezza ha ripreso il sopravvento. Lungo la strada - la strada costruita da noi legionari durante la stagione delle piogge - è stato un susseguirsi di gruppi festanti - donne, bambini, uomini - che svontolando bandiere tricolori ed erigendo in alto le croci del Mescal, venivano sin nei pressi degli accampamenti, varcavano le linee dei reticolati, s'internavano tra i muriccioli dei fortini e delle ridotte ed, ovunque, si soffermavano per dar sfogo al loro entusiasmo. E le fantasie si susseguivano alle fantasie. Cori, concerti e danze. Inni di lode al soldato italiano. odi di riconoscenza all'Italia e al Duce e rumorose e movimentate proteste di affetto, di fedeltà e di stima alla Patria lontana.

La danza sacra

A mezzogiorno, intorno al fuoco sacro, l'entusiasmo e l'ebrezza hanno raggiunto il parossismo. Il "deggiac", capo della Regione, ha incendiato il falò. Poi i rappresentanti della chiesa copta, nei loro caratteristici costumi, adorni di ori e broccati, hanno dato inizio alla danza sacra. I sacerdoti sono stati seguiti dalle donne danzatrici: alcune centinaia di fanciulle, dai corpi modellati mirabilmente, si sono esibite in virtuosismi tali da far invidia alla più appassionata seguace di Tersicore; gli armati della locale "banda" hanno sparato migliaia di colpi a salve, in segno di giubilo, fino a che (con la complicità di una latta di benzina, opportunamente vuotata da un milite sul falò), il rogo è arso e le fiamme salienti al cielo hanno detto alle genti "galla" che la fortuna è con essi, che i raccolti saranno abbondanti e che, mercè la protezione Divina, la Regione godrà del benesse avvenire.
E, intorno ai carboni e alle ceneri del fuoco sacro, gli indigeni hanno effettuate le più belle fantasie della festa. Per un'ora si è danzato, si sono gridati gli Osanna al Mascal, si è ripetuta ai quattro venti la lieta novella. Il fuoco sacro ha decretato la fertilità delle terre, la ricchezza e la tranquillità delle genti etiopiche.
Ardevano ancora i tizzoni della pira, non s'era spento l'eco dei canti, quando, improvvisa, una centuria di ragazzi faceva irruzione nel campo della festa: cento giovinetti neri, in pantaloncini "cachi", camicciotto bianco e fuciacca nera, lietissimi in volto, agili nelle movenze e fieri nel portamento, facevano cerchio al falò incenerito e, assertori di una fede nuova per le genti etiopiche, cantavano festanti la canzone appena appresa nella scuola che la "23 Marzo" - inarrivabile in tutto - ha impiantato a Uoldia:
Giovinezza, giovinezza
primavera di bellezza...


E, cantando, i ragazzi di Uoldia corrono intorno al fuoco sacro. Corrono e saltellano come bersaglieri. Fantasia? No! Realtà! Realtà viva, viva attraverso questi "balilla" neri, che, nati in un regno di barbarie, vivono oggi la loro adolescenza nel clima del nuovo Impero Romano e, riconoscenti al Re Imperatore, al Duce e all'Italia, cantano "Giovinezza" con lo stesso entusiasmo con il quale inneggiano e plaudono al Mascal, alla Croce di Cristo, simbolo di tutte le genti, che da Roma hanno avuto il dono Divino della civiltà italiana.


Dino Corsi

Il Telegrafo del 24 settembre 1936
Con le Camicie Nere del "Gruppo Diamanti"

Golimà (Regione del Galla-Uollo), settembre

In una fredda sera del febbraio '35, un manipolo di ragazzi, una sparuta schiera di imberbi Giovani Fascisti, indossvano la divisa del Milite. Diciotto anni il più giovane, venti gli anziani, meno di venicinque i pochi vecchi. Indossarono la divisa grigioverde delle fiamme nere dell'arditismo, cinsero la cintura della giberna, lucidarono le baionette, affilarono i pugnali e partirono. In silenzio, come in silenzio avevano risposto all'appello del Duce. Ma un silenzio più significativo di ogni rumorosa manifestazione, un silenzio che racchiudeva in sè il germe della disciplina, insieme a quello della prima rinuncia.
A Siena, questi ragazzi, vannero sin dalle loro contrade per portarsi alla stazione. Dai Pispini, dalle spiagge di Ovile, dalla luminosa Camollia e da tutti i Rioni e le strade si partirono i primi volontari per l'Africa orientale. Cosa era per essi l'Africa lontana e misteriosa? Un enigma.
Cosa sapevano quei giovinetti dell'impresa alla quale erano destinati? Nulla o ben poco. Ma tutti, dal più giovane al più vecchio, dall'umile operaio allo spensierato studente, portavano nell'animo un bagaglio di belle speranze, che non dovevano essere deluse, e nel cuore una ardente fiamma di fede, di volontà e di ardimento, che non doveva mai estinguersi.
Nati, tutti o quasi, nel periodo fulgido della grande guerra redentrice, cresciuti all'ombra del Littorio, fatti uomini, prima di esserlo con l'età, attraverso l'attività svolta in seno alle organizzazioni Giovanili del Regime, soldati fin dall'adolescenza e fascisti fin dall'infanzia, scattarono al primo squillo della Diana di guerra, senza perdersi in considerazioni, senza tentennamenti, offrirono al Duce i loro vent'anni, la loro volontà, il loro desiderio di servire e far grande la Patria.
Oscura e silenziosa, la vecchia stazione, salutò la partenza del manipolo audace. Baci di mamme, di babbi, di fratelli e di fidanzate, lento sventolar di fazzoletti, molti abbracci, qualche singhiozzo, poche lacrime e poi, il treno si mosse e partì cigolando sulle rotaie.
Da due tradotte si sporsero teste e braccia a porgere l'ultimo saluto, mentre il convoglio si perdeva lontano, nella foschia di quel primo mattino invernale. Scomparve nella nebbia il fanale rosso del vagone di coda, ma di lontano, i sù verso Montarioso, giunsero i canti dei giovani, come un giuramento, come una promessa:
Duce! Duce! Chi non saprà morir?
il giuramento chi mai rinnegherà?

E nessuno rinnegò i giuramento. E tutti, i martiri del Tembien e gli scampati alla morte, dimostrarono di saper morire, da italiani, da fascisti, da soldati.
Questo manipolo di ragazzi, che doveva divenire un pugno di eroi, questi primi entusiasti volontari dell'impresa d'Africa, dovevano insieme ai camerati delle altre Legioni, formare il 1.o Gruppo Battaglioni Camicie Nere Eritrea.
Quel Gruppo, divenuto ormai leggendario attraverso gesta epiche, e conosciuto con nome del giovane ed eroico generale fascista, che per mesi e mesi guidò e condusse alla vittoria e alla gloria i giovanissimi volontari del febbraio '35, "Diamanti".
Essi, i legionari, sono ormai per tutti i "Diamanti", in guerra come in pace un solo nome servì a distinguerli dalle altre Camicie nere: "Diamanti".
Diamanti! Sembra che la sorte abbia voluto imporre loro il nome più adatto, perchè questi ragazzi, questi "Diamanti" sono in tutto e per tutto degni di onorare la corona che cinge la fronte della Nuova Italia Imperiale.
Poco, troppo poco forse, si è scritto delle gesta di quattro battaglioni e della compagnia mitraglieri A.P. che costituiscono il 1.o Gruppo CC.NN. d'Eritrea. Ignoti sono in Patria gli episodi di valore, di sacrificio e di fede a cui hanno dato vita i giovanissimi legionari nei diciotto mesi della loro permanenza in Africa Orientale. Sempre affiancato a grandi unità, il gruppo ha operato di concerto con queste e sovente il suo nome è confuso, sino a scomparire quasi del tutto, con quello del Corpo d'Armata o della Divisione, agli ordini dei quali operava. Ma noi, che fummo in Africa con i "Diamanti" nel febbrile periodo della vigilia guerriera e che sempre, durate e dopo le azioni, seguimmo con animo orgoglioso e trepidante le gesta dei fratelli minori, che precedendoci di due mesi nell'arruolamento ci insegnarono la via del dovere, noi, ripeto - i legionari della "23 Marzo" - sappiamo quanto grande sia stata la misura dei pericoli e dei sacrifici, superati da quelli, che a ragione, sono oggi i veterani dell'A.O.
Veterani a vent'anni. E non tutti li hanno ancora, vent'anni. Ma tutti sono già uomini. I diciotto mesi di colonia, i sette di guerra, da essi vissuta e combattuta duramente, han fatto dei giovani fascisti di ieri dei soldati perfetti e dei legionari che nulla hanno da imparare, ma tanto da insegnare.
I combattimenti del dicembre e le due grandi battaglie del Tembien hanno sempre veduto i "Diamanti" in primissima linea. Nelle gloriosamente sanguinose giornate del gennaio, a Mai Ceu ed a Passo Uareiu, i ragazzi dell'ultima leva compirono prodigi di valore. I corpi dei giovanetti si eressero abarriera invalicabile di fronte alle orde etiopiche. Furono martoriate le carni, si compì il glorioso sacrificio di centinaia di adolescenti eroi, ma il nemico non passò. E nel febbraio, alla riconquista di Abbi Addi e nella scalata dell'Uorkamba (Amba d'oro) furono ancora i "Diamanti" a dare il "la" agli attacchi, a sacrificarsi, a vincere, a morire per primi.
Vent'anni, ma tutto un passato di glorie che ingrandisce smisuratamente le figure degli eroi giovanetti, che fa di essi degli uomini pronti sempre, come lo furono, a dimostrare al mondo cosa possa la giovane generazione della sempre più giovane Italia.
Altra volta ebbi occasione di parlare dei camerati, e per esser più precisi, dei Senesi del "Gruppo Diamanti"; fu nell'ottobre scorso, poco dopo l'inizio delle operazioni, durante la rapida avanzata nel Farras-Mai, dopo la non meno rapida conquista dell'Entisciò. La "23 Marzo" era impegnata nell'azione per la conquista del Monte Raio, quando il "Gruppo" operante con noi in seno al Corpo d'Armata Indigeno, fu per alcuni giorni a stretto contatto con le nostre linee.
Potei vedere i ragazzi di Siena ed intrattenermi con loro per pochi minuti. Scrissi dell'incontro ed espressi la certezza che nei "Diamanti", come nella "23 Marzo", la Città di Santa Caterina avrebbe avuto dei figli degni della gloria e delle tradizioni del passato. La certezza non fu mai smentita. E siena può, oggi, aggiungere alla sua gloria quella gratitudine di aver dato alla Patria oltre mille volontari, inquadrati, sempre al loro posto di dovere e di combattimento, nel 1.o Gruppo e nella 1.a divisione CC.NN. Primi nell'ardide nelle grabdi unità e primi ad arruolarsi e partire. Primi ieri nelle azioni di guerra e primi oggi nel profondere le proprie energie per la redenzione dell'impero conquistato.
Li ho veduti giorni or sono, i cari ragazzi, nella selvaggia valle del Golimà. sempre i soliti, sempre la stessa spensieratezza giovanile, sempre e più viva che mai, la fiamma di luce che sprizza dai loro occhi.
Per molte ore siamo stati insieme. Ora sotto una tenda, ora all'ombra di un baobab ed infine, a notte, fra le pietraie bianche del torrente.
Mi si son seduti attorno, i compagni d'arme e di fede, stretti in cerchio ed uniti a me, ed agli altri camerati senesi della "23 Marzo" che erano con noi, dagli stessi pensieri, dagli stessi ricordi, dalle stesse speranze.
Hanno narrate le loro gesta, rievocati gli episodi della guerra e fatti risaltare quelli più salienti, con semplicità, naturalezza, quasi con timore. Ed hanno ascoltato i nostri racconti, le spiegazioni da noi date riguardo questo o quel combattimento, al quale avemmo fortuna si prender parte, e si sono accalorati ed entusiasmati per le nostre imprese, che non furono certo superiori alle loro.
E poi, mentre la notte si faceva sempre più nera e le acque del torrente cantavano una canzone triste e nostalgica, i pensieri di tutti son volati a Siena, a casa, alle mame. Il cerchio si è stretto maggiormente, i cuori hanno palpitato all'unisono e negli occhi di tutti è brillata via la fiamma della speranza di un presto ritorno.
Ed abbiamo pensato, man mano che le ombre divenivano più fitte e la canzone delle acque aumentava di tristezza, ai fratelli che non torneranno più. Uno per uno, i nomi sacri dei Martiri sono venuti alle nostre labbra: Angiolini, Tondi, Esposito, Giachetti, Morgantini, Burroni, Meacci...E giù giù, tutto l'elenco dei Prodi e degli Eroi, che tutto diedero alla Patria, dopo averle tutto offerto.
Come in un tempio le gesta dei Santi, quelle dei nostri Caduti sono state rievocate sulle taglienti roccie del Golimà. E come una prgehiera...quella canzone che sa far piangere è echeggiata solenne sotto il cielo africano:

Mamma non piangere...


Dino Corsi

Il Telegrafo del 19 settembre 1936
Pattuglia notturna all'abbeverata dei leopardi

Torrente Allà (Amhara Orientale), settembre

Sopra a noi il cielo è sereno. Da ventiquattr'ore non piove e, mirando le stelle che brillano e scintillano ed il disco luminoso della luna piena, sembra che non debba piovere mai più. Il torrente, che nei giorni scorsi si era trasformato in un fiume impetuoso e tutto travolgente al di là dei suoi argini rotti e superati per diecine e diecine di metri, scorre placido nel suo letto e pare voglia, con il silenzio e l'umiltà, farsi perdonare la tracotante e rumorosa prepotenza delle notti passate.
Nell'accampamento, sulla sponda destra del fiume, regna il silenzio più completo. Gli uomini, dopo tante notti pressochè insonni e trascorse in continua e dura lotta con le acque dell'Allà che di ora in ora e di minuto in minuto sembrano volersi sfogare sulla fragilità delle tende, dormono tranquilli sognando, forse, un piroscafo, pulsante nello scafo e lietamente sbuffante dal più alto fumaiolo. E' questo ormai il sogno di tutti in tutte le notti. Sogno che non si ferma nella folda del piroscafo, ma che si irradia lontano lontano, attraverso il Mar Rosso, il Canale di Suez, il Mediterraneo ed il Tirreno per raggiungere la sponda del sacro suolo d'Italia e incunearsi nel cuore della Patria, fino alle città, ai paesi, alle borgate più lontane, ove da diciassette mesi, una moltotudine di madri, di spose e di figli attendono il ritorno dei legionari.
E mi trovo proprio tra la dolce illusione di una di questi sogni quando la voce di un camerata mi ridesta. La voce è sommessa, ma abbastanza violento è lo strattone che mi vien propinato per togliermi dalle bracci di Morfeo.
- Su! Sveglia! E' l'ora!
- L'ora! ...Di cosa? - Mezzo addormentato ancora, mi alzo ed esco dalla tenda. E ripeto la domanda: Cosa vuoi? Perchè mi hai svegliato?
- La pattuglia, non ricordi? E' già mezzanotte.
Ora ricordo. ieri sera un ufficiale del Reparto, presso il quale mi trovo da tre giorni a causa delle acque che impediscono il guado dell'Allà, mi ha invitato a seguirlo, stanotte, durante la consueta pattuglia notturna lungo la sponda del fiume, fino alla località conosciuta con il nome di "abbeverata dei leopardi", a ragione delle fiere che ivi, la notte, vanno di consueto a dissetarsi.
In pochi minuti son pronto, vestito e armato, raggiungo la pattuglia che si accinge ad uscire dal campo. Saluto l'ufficiale, che mi risponde con un ben augurante sorrisoed ammicca l'occhio, come per dire: la nottata è bella. Ci divertiremo...
Pochi passi e siamo fuori dal cerchio delle tende. traversiamo la camionabile che porta al tornante e ci interniamo subito nella folta boscaglia, che cresce rigogliosa ai lati del corso d'acqua tropicale. La notte, lo ripeto, è serena e la luna splende in tutta la sua magnificienza. Ma tra il groviglio degli alberi e delle liane incombe l'oscurità più nera. Le torce elettriche ci illuminano il cammino e, in dieci uomini quanti siamo, fatichiamo assai a procedere lungo uno stretto sentiero appena tracciato tra la massa della vegetazione.
Di tanto in tanto siamo costretti a sostare per liberarci il passo, qua e là ostacolato da cespugli di rovi o addirittura da tronchi d'albero, gettati sul sentiero dalla violenza degli uragani. La nostra marcia, accompagnata in un interminabile concerto animalesco - sono scimmie che gridano, fiere che ruggiscono, sciacalli che ridono, iene che guaitano ed euccellacci notturni di tutte le specie che gracidano e stridono - procede così per un paio d'ore fino a quando cioè, ci liberiamo dalla stretta dei sicomori, dalle euforbie, dalle spinose e dalle liane e giungiamo in un piano sabbioso che, partendo dal fiume, si estende e vince la forseta per un migliaio di metri quadrati. Siamo all' "abbeverata dei leopardi". E qui è il limite di vigilanza della pattuglia.
Spente le torce, chè la luce lunare ci rischiara in pieno, raggiungiamo la sponda e, in silenzio, ci incamminiamo tra l'ammasso di roccie lambite dalle acque. Davanti a noi è il fiume; al di là sull'altra sponda si estende pure il pianoro sabbioso, che, largo alla riva, va man mano restringendosi fino a divenire un sentierucolo di pochi decimetri, che si inoltra e si perde nella boscaglia.Ed è il piccolo sentiero, pista aperta tra il fogliame dagli animali, è quello da dove dovranno sbucare le fiere.

L'ora dell'abbeverata

Sempre silenziosi, immobili e studiandoci di non fare il minimo rumore, attendiamo. L'ora della "abbeverata" è vicina e l'attesa non dovrebbe essere lunga. Infatti non lo è. Pochi minuti sono passati dal nostro giungere al pianoro, che qualcosa si preannuncia al di là del torrente.
Preceduti da grugniti e dal rumore di rami spezzati, quattro grossi bestioni neri irrompono nella foresta nel tratta sabbioso. Sono (cosa sono precisamente non saprei dirlo, giacchè nessuno ha saputo darmi il loro nome) o meglio, sembrano cinghiali. Ma più grossi, molto più grossi, di quelli non rari nei nostri boschi, dal pelame lungo ed irsuto ed armati di due formidabili zanne, lunghe circa quindici centimetri, che ricordano un pò quelle dell'elefante.
Senza neppur guardarsi intorno le due coppie di bestioni, scendono il greto del fiume e si precipitano in acqua. Per un buon quarto d'ora assistiamo al bagno animale, caratterizzato da lunghi grugniti e tuffi prodigiosi, e poi vediamo le bestie , dissetate e rinfrescate, uscire dall'acqua e, grugnendo, rientrare al galoppo nel folto della vegetazione.
Non facciamo neppure in tempo a scambiarci le nostre impressioni su quanto abbiamo veduto, che un ruggito, seguito subito da altri, risuona vicino a noi.
- Eccoli, i leopardi... - Sommessa, la voce corre di bocca in bocca: vengono i leopardi, vengono...
Aguzziamo gli sguardi e ci irrigidiamo ancor più, se è possibile, nella nostra immobilità. Un lento frusciare tra il fogliame, ruggiti sempre più distinti e le fiere ci sono davanti.
Son cinque: due adulti e tre piccoline. I genitori ed i figli, suppongo. Il maschio è all'avanguardia della selvaggia e feroce famiglia. Corre strisciando sul terreno e sbattendo di tanto in tanto la sabbia con la coda, il leopardo avanza guardandosi intorno e fiutando l'aria, quasi se sospettasse una qualche insidia. Dietro al maschio vengono i tre cuccioli, vispi e saltellanti come gatini, e la femmina, poco più piccola del compagno, ma meno rapida nei movimenti.
I leopardi sono all'abbeverata. Li vediamo ora vicinissimi e pensiamo ben scorgere i loro magnifici mantelli giallomarrone, particolarmente lucidi, così come sono illuminati dalla luna. I piccoli, lo capiamo dalle loro mosse, vorrebbero attandarsi nel'acqua, ove, allegri e spensierati, sguazzano e saltellano come cagnolini, ma i genitori sono di diverso parere. Due o tre zampate del maschio, date a mo' di scappellotti, ed un materno ruggito della femmina fanno sì, che in un attimo, la famiglia sia riunita e si incammini sulla via del ritorno.

La fuga delle scimmie

Sono appena scomparsi i leopardi, che un grido stridulo, acuto come un segnale, risuona nella selva. E come richiamata dal grido, un'intera tribù di scimmie piomba dall'alto degli alberi ed invade il pianoro. Sono una ventina e più di scimmiotti, dal pelame color cioccolata, alti dai venti ai cinquanta centimetri e straordinariamente umani nelle movenze e nei gesti. Saltellando, gesticolando ed esibendosi nelle più inverosimili capriole, gli scimmiotti, in gruppetti di tre o quattro, scendono all'acqua e si dissetano. Facendo miracoli di equilibrio, si destreggiano sulle roccie taglienti, raccolgono il liquido nel cavo delle mani e se la portano alla bocca. Così, proprio così, come fanno gli uomini.
I più piccoli, allungano le vellose braccia e tentano di imitare gli adulti. ma per essi l'impresa è difficile, dato che giungono appena a sfiorare le acque del torrente. Sono allora i vecchi, certamente i genitori, che, sempre nel cavo delle mani, offrono il liquido alla impaziente ed assetata prole. Le scimmie si attardano al margine del torrente. Certo non hanno fretta di ritornare; e si comprende che attendono l'alba, per andarsene in cerca di bacche selvatiche e fichi d'india.
Ma, ancora una volta, torna a risuonare il grido di segnale, lanciato, ora lo comprendiamo, da uno scimmiotto, issatosi su uno dei più alti alberi con funzioni di osservatore. Il segnale lanciato dalla quadrumane scolta è di pericolo e di allarme. Comprendiamo ciò dai gesti degli scimmiotti e dalle grida paurose di questi. In un attimo la tribù è presa dal terrore e sembra non trovar via d'uscita possibile.
Ma, richiamati da quello che per la sua mole sovrasta tutti e ne è certamente il capo, gli animali si riuniscono in un sol gruppo. Parlottano, o meglio gesticolano, pur avendo l'aria di discutere, un pò tra loro e. al ripetersi del grido di allarme, che risuona sempre più pauroso, battono in precipitosa ma ordinata ritirata e, arrampicandosi sù per le liane, si inerpicano negli alberi e si perdono nella boscaglia.
La fuga degli scimmiotti di fronte ad un pericolo, certo non immaginario, fa acuire la nostra curiosità. Il pericolo, pensiamo, viene di là, dalla giungla; e verso il sentiero che si interna tra il folto della vegetazione si appuntano i nostri avidi sguardi. Un ruggito, che ormai conosciamo, ci attesta la presenza di un leopardo; un rapido smuovere di fronde e la fiera, che ha fugato i pacifici scimmiotti, è davanti a noi.
Strisciando sul terreno, il leopardo si avvicina. I suoi occhi hanno bagliori di fiamma, tutto il suo corpo sembra agitato da un tremito convulso. Si sofferma, fiuta l'aria e, d'un balzo, indietreggia e si nasconde tra i primi rovi della foresta. la belva è affamata, attenda la preda e, forse, con il suo straordinario fiuto, ha avvertito l'avvicinarsi di un boccone appetitoso.

L'agguato alla gazzella

Non vediamo più i leopardo, la lo "sentiamo" là tra il fogliame, proteso sulle quattro zampe e pronto a balzare. Trascorrono alcuni secondi, lunghi come una eternità; poi, timida e paurosa, una gazzella sbuca dal sentiero e si avvicina, circospetta, al torrente.
La bestiola avanza a piccoli passi, sembra che senta il pericolo e non si decida a scendere il greto. Intanto, il leopardo, ventre a terra sulla sabbia, è uscito dal suo nascondiglio e si avvicina alla gazzella.
Vediamo la belva avvicinarsi lentamente. I suoi occhi sprizzano addirittura fiamme, la sua coda, sempre mobile, sbatte l'aria con violenza, mentre la gazzella, sospettosa, ma ignara del pericolo che la minaccia alla spalle, si decide a muovere il primo passo giù per il ciglione roccioso che la divide dall'acqua.
Pochi istanti ancora, alcuni metri da superare strisciando ed il leopardo, spiccato il balzo, potrà affondare i suoi artigli sulle tenere carni della pavida bestiola. Seguiamo la scena come affascinati ed incapaci di fare qualsiasi movimento a pro dell'animaletto innocente che è in procinto di venir dilaniato dalla belva.
Ma quando il leopardo, raccolo sulle zam,pe e stesi i garetti, balza sulla preda, un grido spontaneo esce dalle nostre bocche. E' un attimo, ma il grido ha avvertito la gazzella che, pronta, sventa l'insidia. Un movimento del corpo, ed eccola, diciamo così, fuori tiro. Infatti il leopardo ricade sulla nuda roccia e non fa in tempo a prepararsi per il nuovo balzo, che la rpeda bramata, mossa dalla paura, supera velocemente il corso d'acqua e risalito il greto opposto si dilegua nella giungla.
Passandoci vicina, la gazzella ci scorge. Come a volere dimostrarci la sua riconoscenza per il nostro opportuno vocale intervento a suo favore, ci lancia uno sguardo fatto un pò di gioia, un pò di timore, ma certo pieno di affetto per noi.
Il leopardo, messo sull'avviso dalle nostre grida, sente la presenza degli uomini e, paventando il pericolo, rinuncia a seguire la gazzella, del resto ormai irraggiungibile nell'intrigo della giungla. La fiera, più irrequieta che mai, gironzola per il pianoro e digrigna i denti e sbatte furiosamente la coda, come a manifestare tutta la sua collera.
Ma improvvisamente si arresta. Immobile, fiuta ancora l'aria e poi torna e celarsi nel suo verde nascondiglio.
Un nuovo boccone, al posto di quello già dileguatosi, sta forse per giungere a portata di denti dall'affamata e vorace belva, ma questa volta non è una timida gazzella che viene a sfidare gli artigli del leopardo. Uno scimmione, alto un buon metro e cinquanta, dalle membra muscolose e quanto mai poco rassicuranti, rivelante in tutto il corpo e nei movimenti una grande forza non disgiunta da una buona dose di agilità, sbuca dal sentiero e, senza titubanza, avanza verso il corso d'acqua. Gli arti superiori del quadrumane, straordinariamente lunghi, toccano quasi il suolo, mentre la bestia, a passi lenti, ma con la sicurezza dei forti, va giù per il pianoro.
Formuliamo mentalmente il dubbio che il leopardo attacchi tanto nemico, ma il felino è pronto a smentire le nostre troppo assodate supposizioni. Esce dal riparo, la fiera, si porta avanti alcuni metri con il caratteristico strisciamento e poi, deciso, balza e piomba alle spalle della scimmia.

La battaglia con la scimmia.

L'attacco improvviso, sgomenta un pò il bestione. Ma è un attimo. Compresa la natura del nemico, lo scimmione reagisce. Scrolla con violenza il corpo, poi le due già larghe braccia si allungano tentando di afferrare l'assalitore. Inutilmente: il leopardo tiene duro ed i suoi artigli straziano le carni del quadrumane. Questi getta urla disperate e, in un estremo tentativo di salvezza, piomba al suolo e comincia a rotolarsi sulla sabbia.
Per alcuni istanti vediamo i corpi delle due fiere contorcersi e dibattersi; infine, il leopardo ha la meglio. Approfittando che l'avversario è a terra, lascia la presa alle spalle, affronta lo scimmione di fronte e lesto come il fulmine, affonda i suoi aguzzi denti nella gola del quadrumane.
Vediamo ora il leopardo bere avidamente il sangue della vittima e frugare le carni in cerca dei bocconi migliori. Siamo disposti ad attendere la fine del festino, quando un lontano brontolio del tuono interrompe la nostra contemplazione.
Senza che ce ne avvedessimo, nuvoloni neri e pieni di tempesta si sono ammassati sulle nostre teste. Tra poco anche la luna sarà coperta. E di lassù, ove le acque si perdono verso i monti del Lasta, giunge, con il brontolio del tuono, un rumore sordo e pauroso. L'uragano, che fra non molto giungerà fino a noi, si è già scatenato alla nostra destra; e la piena, la terribile piena dell'Allà, si annuncia con i rumori che ben conosciamo.
Partiamo, per non dire fuggiamo, verso l'accampamento. Occorre far presto se non si vuole che le acque precipitanti dai monti, invadano il nostro sentiero e ci costringano ad internarci nel folto della ignota e pericolosa foresta. Forziamo il asso e via, di fronte all'acqua; proprio come poco fa ha fatto la timida gazzella di fronte all'attacco del leopardo.
La luna è ormai coperta dalle nubi, ma la nostra marcia è veloce come più non potrebbe esserlo. Le due torce elettriche, giganteschi occhi di leopardo, ci portano con sicurezza sulle traccie della gazzella, lungo la via buona.
Cadono le prime gocce, che siamo già in vista delle tende. E lontano, lassù, all' "abbeverata" risuonano le lugubri risate degli sciacalli, che incuranti della tempesta, gozzovigliano intorno agli avanzi dello scimmione.
Le iene, lontane, lanciano al cielo i loro ululati di gioia e sembrano già assaporare gli ultimi fetidi avanzi di quelle che stasera sarà già una carogna, intorno alla quale esse banchettano allegramente.


Dino Corsi

Il Telegrafo del 2 agosto 1936
Dalla capitale eritrea alla tana del leone di Giuda (V parte)



( V )


Uoldia

La regione di Uoldia, che ha per capoluogo il villaggio omonimo, si estende nell'Amhara orientale, tra la catena montuosa che precipita nel bassopiano dancalo e la linea di colline al confine del Lasta, da dove si diparte la impervia e seminesplorata mulattiera per Gondar.
Il villaggio, o meglio il villaggio principale, chè di villaggi la regione è ricchissima, è situato su di una collinetta, al centro di una valle, interrotta qua e là da rialzi del terreno, piccole montagne e corsi d'acqua. Tutta la zona è ricchissima di pascoli e di colture. Il clima è uno dei migliori dell'Africa Orientale e la terra, particolarmente adatta all'agricoltura, è ricca di acque, mentre il sottosuolo, a detta dei competenti, non è privo di minerali. Ma, dato che noi siamo saliti al villaggio con ben altri scopi che gli accertamenti sulle proprietà del suolo e del sottosuolo, sarà bene lasciare ad altri, anche per ragioni di competenza, l'incarico di porre nella giusta luce le ricchezze naturali della Regione.
E' martedì, cioè giorno di mercato. Giungiamo nella vasta piazza degli affari - un pianoro sgombro da ogni sorta di vegetazione - che un'immensa folla già vi si accalca. Dieci o dodicimila persone ed almeno il triplo di capi di bestiame, eccettuati i polli, che saranno da soli almeno cinque volte tanto, su affollano tra le fila di euforbie delimitanti la zona del mercato.
Apparentemente, nella piazza è una confusione indescrivibile, sventolio di sciamma, ondeggiamento, sulle spalle dei "galla", di pelli di capra, grida non sommesse in una infinità di lingue e dieltti, muggiti di zebre, belati di agnelli, chicchirichi di galli, abbaiar di cani, concioni di banditori, rullar di tamburi, soffiar di zufoli, suono di "irte" - i caratteristici strumenti a coda indigeni - canti di menestrelli, manie di danzatrici e, su tutto, agli sciamma, alle pelli caprine, sui mille rumori, le centinaia di ombrellini variopinti dei capi e delle donne di questi. confusione, caos, babilonia...
Ma basta vincere il senso di ripulso che sempre si fa sentire ad un ammassamento di indigeni, basta resistere alla nausea derivata dall'inconfondibile odore di burro fermentato ed olio di caffè, con i quali sono unte le capigliature femminili e parte dei corpi maschili, basta insomma farsi largo a forza di gomiti e spingersi tra la calca per convincersi che la confusione non è tale, il caos non è che ordine e la babilonia, una pura immaginazione.
Senza che il vigile provveda a ciò, i vaccini si raggruppano in un angolo appartato, gli ovini portano i loro belati in apposito recinto, i polli starnazzano nello spazio loro riservato, i mercanti di grani ed oggetti vari stazionano al centro della piazza, mentre i suonatori di "irte" e le seminude danzatrici portano le loro melodie e i loro lascivi sgambettamenti ai margini della piazza.
Stazioniamo a lungo nel mercato, sempre presi dallo spettacolo nuovo che si offre ai nostri occhi.
Entriamo in trattative per l'acquisto di alcuni cestelli di vimini variopinti, ma non riusciamo ad intenderci con il venditore. Ci facciamo dappresso ad una venditrice di uova, ma anche qui i nostri sforzi sono vani. Le uova, al mercato, si vendono soltanto insieme alle galline, non separate. Così, volendo due o tre coppie per la colazione, si dovrebbe acquistare anche un paio di vecchi ed ossuti polli.
Con un agricoltore, venditore di caffè, abbiamo più fortuna.Ma anche qui, per avere un chilo di caffè in natura, siamo costretti ad acquistare una certa quantità di peperoni rossi e...due colossali zucche gialle.
Carichi dell'ingombrante fardello delle cucurbitacee, ci avviciniamo alla zona, diciamo così, spettacolare. Le zucche, offerte in omaggio a quattro danzatrici, ci fanno assistere ad una indiavolata fantasia, con relativa esposizione di gambe, seni e qualcosa di più.
I corpi caffellatte delle fanciulle - la più anziana avrà si e no sedici anni - sembrano doversi troncare da un istante all'altro, tanto si divincolano e si piegano, spinti ed incitati come sono da una melodia di un "irte" inebriante quanto mai.
Seguiamo ammirati le movenze dei quattro corpi femminili, quando alcune grida ci scuotono dal torpore e ci fanno accorrere al di là della linea di euforbie, sino ai margini del villaggio.
Le grida, di terrore e di aiuto, provengono dall'interno di una capanna. Armi alla mano, facciamo per entrare, ma un indigeno, con un gesto supplichevole, ci ferma sulla soglia del tugurio: Non entrare guaitana! Là stare diavolo. Cattivo diavolo ora andare via. Non entrare guaitana!
Più che mai spinti dalla curiosità di conoscere questo diavolo, entriamo quasi a forza nella capanna. Le grida sono taciute, ma vediamo lo stesso la spiegazione del mistero.
Un uomo, colto, a quel che possiamo comprendere, da un attacco epilettico, è stato creduto - questa è la credenza comune tra gli indigeni - preso dal demonio. E per far sì che Satana abbandonasse il corpo dello spiritato, i famigliari hanno legato il poveretto e, di buon accordo con tutte le volontà degne delle migliori cause, si sono dati a percuoterlo furiosamente con nerbi di bue. Picchia e ripicchia, il disgraziato ha perduto i sensi, si è naturalmente, calmato e quindi, a detta dei congiunti, che hanno perciò improvvisato una fantasia di gioia, il diavolo è uscito dal suo corpo.
Compresa l'impossibilità di far capire a gente tanto primitiva la vera causa del male del loro parente, ci allontaniamo dal tucul ed attraversiamo il villaggio per raggiungere le famose grotte di Tafari.
Strada facendo, tra il dedalo delle viuzze e l'intrigo delle capanne, siamo fatti segno agli omaggi della popolazione, che va e viene dal mercato.
- Salam Guaitana!
- Buon giorno taliano!

Contraccambiamo i saluti con gesti della mano e continuiamo affrettatamente per la nostra via. Abbiamo fretta di giungere alle grotte, dato che ci siamo soffermati un pò più del previsto al mercato, ma non possiamo, di tanto in tanto, astenerci dal rallentare l'andaturra per mirare le bellezze nere che incrociamo nel nostro cammino.
Ho detto "mirare" e non "ammirare", perchè, per belle, le donne nere non potranno mai destare l'ammirazione dell'italiano, che in fatto è abbastanza esigente, forse in considerazione di ciò che l'attenderà al di là del mare. Ma non posso riconoscere che le donne di Uoldia sono tra le belle e forse le più belle, in senso assoluto, di tutto l'impero etiopico. del resto, non per nulla il Negus e la sua corte venivano qui a trascorrere i loro ozi primaverili...
Ozii che quest'anno sono stati bruscamente interrotti dalla nostra avanzata. Tanto bruscamente, che il signor Tafari dovè fuggirsene dal suo quasi elegante cascinale, costruito tra palmizi ed euforbie, e ripararsi nelle grotte, in quelle grotte che per più mesi furono il rifugio preferito del leone di Giuda.
E nella tana, da dove Ailè Sellassiè emetteva i suoi ruggiti, troppo simili a belati, siamo giunti dopo una buona oretta di marcia, attraverso un terreno montuoso, ancora cosparso di opere di fortificazione, rotto da trinceramenti e livellato qua e là da piazzole per mitragliatrici e cannoncini antiaerei.
Preceduti dalle...guide (l'occhialuto studente universitario, celebrità del "Caffè Greco" ) che in virtù dei suoi...fanali marcia all'avanguardia; l'aristocratico scacchista, nonchè celebre cavallerizzo, notissimo tra le pareti della sala damistica del "bar Mosca", ed un funzionario del Ministero delle Finanze, oggi in camicia nera, romano...d'Arezzo, e per l'occasione con funzioni di retroguardia, data la sua mole, non più...come al giorno dello sbarco in Africa orientale, ma sempre discretamente voluminosa e rassicurante), ci inoltriamo pr il camminamento coperto e raggiungiamo la grotta principale, tana del leone di Giuda.
L'ambiente, scavato con il piccone nella dura roccia, è un vero ricovero di guerra. Privo di ogni conforto, ma sicuro quanto mai. Davanti all'apertura, oggi non più protetta dagli infrascamenti, sono ancora trinceramenti e postazioni per la difesa antiaerea. L'interno, un giorno riccamente addobbato con tappeti e mobili di provenienza europea, è nudo e misero. I topi e i lucertoloni vi dominano incontrastati e, non essendo nostra intenzione disturbare i roditori ed i rettili, degni discendenti del leone che fu, usciamo all'aperto e ci liberiamo così della nausea provocata dal tanfo, caratteristico in tutte le abitazioni indigene, e, naturalmente, anche di quella del signor Tafari, degno in tutto, dal lato igienico, dell'ultimo dei suoi sudditi.
all'aria aperta, seduti su tronchi di albero tagliati, ci accingiamo a consumare la colazione, commentando e discutendo sulle impressioni della giornata. Poi, come sempre avviene quando la comitiva è composta in prevalenza da senesi, la conversazione scivola piano piano su Siena e, occorre dirlo?, sulle contrade e sul Palio.
- Sicchè, chiedo io, ha vinto la Giraffa?
- Già, la Giraffa - mi risponde l'occhialuto studente, e per l'ennesima volta si accinge a narrare le fasi del Palio, così come le conosce attraverso una lettera giunta ieri da Siena e magari un tantino abbellite, ed esagerate dalla fantasia di contradaiolo.
- Ha vinto la Giraffa, e l'Oca s'è purgata...
Le scatolette, già aperte, invitano ad iniziare la colazione, le pagnotte attendono solo i nostri voraci morsi e, non mancando l'appetito, ci accingiamo a dar sotto alle provviste.
Tra un boccone e l'altro, continuando la conversazione mai interrotta, uno dei miei compagni mormora: Peccato non ci sia un giraffino; avrebbe pagato da bere...
- Già, aggiunge un altro, e nemmeno un ocaiuolo per levar l'olio dai fiaschi.
Un'allegra risata fa seguito alla battuta. E si ripercuote, il rumore delle risa, nell'interno delle tana, ritornando a noi smisuratamente ingrandito e straordinariamente ironico, come per dire: altro che Oca! Quello di Tafari, si, che è stato un purgante! E che purgante!


Dino Corsi